giovedì 20 settembre 2012

Artemisia di Rembrandt: dal romanzo al museo

Rembrandt, Artemisia, 1634, olio su tela, cm 142 x 153, Madrid, Museo del Prado.

Artemisia è un'opera difficile: osservandola si sperimenta l'irraggiungibile lontananza storica e geografica, ma anche l'inaccessibile volontà della mente che l'ha concepita.

In questo dipinto sono riassunte tante iconografie, tanti punti di vista che nella storia dell'arte si sono avvicendati nella rappresentazione della donna: la donna del mito, attraverso la storia di Artemisia, la donna occidentale, in quanto è ritratta Saskia la moglie di Rembrandt, la donna che legge infatti un grosso volume è raffigurato al suo fianco; naturalmente sia Saskia, che ha prestato il volto ad Artemisia, sia la mitica regina della Caria, celebrano i loro mariti.
Artemisia è frontale, in piedi, solenne, guarda davanti a sè. E' abbigliata con ricche vesti occidentali che non l'identificano con la sua terra, Caria, regione dell'odierna Turchia; con lei stanno due dame e accanto a lei è posto un grande libro sul quale posa la mano come se stesse giurando. Artemisia moglie di Mausolo, alla morte del marito, divenne regina e mausoleo del suo perduto amore.

Una lettura per andare oltre.
L'incontro con Artemisia, prima ancora di averla vista al museo del Prado, è avvenuto attraverso un brano del romanzo Un cuore così bianco di Javier Marìas (nell'edizione Einaudi pp.121-127 lo puoi leggere in coda al post) che ci propone una lettura emozionale di questo dipinto. L’interessante del racconto consente di pensare, senza suscitare scandalo, che un quadro possa essere contemporaneamente capolavoro e brutto, un privilegio molto esclusivo.
Senza scomodare il concetto di brutto, che -come quello di bello- è variabile e non codificabile, direi che leggere un racconto che sollecita la riflessione sulla irritazione e sulla frustrazione che si può provare davanti a questa opera, è molto particolare. Sgombra il campo e rende liberi di apprezzare o meno quello che tutti ammirano.
Marìas narra come Mateu, un custode del Prado, stufo di guardare il volto grassoccio di Artemisia di Rembrandt abbia concepito l’idea di bruciare il dipinto e con un accendino si apprestava a dargli fuoco.
Nel consueto giro ispettivo che Ranz compiva prima della chiusura del museo, si avvide delle intenzioni di Mateu e si apprestò a fermarlo. Comprendendo la frustrante esperienza del custode che era costretto ad osservare per molte ore al giorno quella Artemisia non bella ma protagonista di un capolavoro inestimabile; rendendosi conto di quanto la fissità del dipinto -che non riusciva a mostrare l’evoluzione della scena né il volto della servetta raffigurata di spalle- potesse inquietare Mateu, egli finse di voler ridurre in mille pezzi la tela servendosi di un estintore. Come colto da un folgorante senso del dovere, Mateu ha impedito a Ranz di compiere l’insano gesto.
Ecco, dunque, che, guardando l’Artemisia di Rembrandt con gli occhi di Marìas diventa legittimo che un capolavoro possa apparire brutto e irritante.
Perché, dunque, è irritante questo dipinto? Cosa disturba di esso? E cosa voleva dire Rembrandt?
La risposta, non unica né univoca, può forse provenire da una più attenta lettura delle immagini, dal momento che guardare non basta.
Forse analizzare qualche aspetto della storia di Rembrandt può aiutare.

La bellezza olandese
Rembrandt non è mai uscito dall'Olanda e non si è mai confrontato con le opere italiane. È quindi importante sapere che questo pittore è totalmente disinteressato al modello di bellezza "ideale", al concetto dell'arte come recupero del classico, alla veste mitologica che i pittori italiani propongono. Non è preoccupato nemmeno dei concetti “filosofici” che in Italia sono al centro del dibattito sulla pittura, come ad esempio, se sia più importante il disegno o il colore.
Rembrandt, essendo fuori da tutto ciò, è libero di esprimersi. Inoltre, egli fece una carriera opposta a quella degli altri pittori, divenne subito famoso e ricco poi, progressivamente fu dimenticato e quasi abbandonato, rimanendo libero anche dal vincolo del committente.
Tutto questo per dire che Rembrandt è capace e propone una pittura "libera" e quindi noi lo percepiamo con un'aspetto anticoformistico piuttosto innovativo nel suo contesto storico.
Egli è diverso, come lo sono i pittori moderni. Essere libero significa non dipingere per la committenza ma per un mercante d’arte, significa non dover usare la sua tecnica per compiacere un committente che voleva veicolare contenuti suoi attraverso le immagini eseguite dall’artista Rembrandt.
È questo che fa la differenza.
Raffigurando quella che Marìas identifica come la “donna grassa”, Rembrandt non ha inteso fare una donna brutta. Sappiamo che la modella è la giovane moglie Saskia, quindi la donna esprime un'immagine che Rembrandt ritiene bella, amata, dolce. L'intenzione è di esprimere l'amore per la giovane moglie che è vestita riccamente, è abbigliata con uno sfarzo e una eleganza che suggerisce un ambito regale, anche grazie alle due donne che l’accompagnano, al grande libro che non è un oggetto comune.
Ha una veste dorata con ricami, alamari e una mantellina di pelliccia, ha gioielli d'oro e pietre preziose e perle ovunque: nei capelli, al collo, sulle braccia, alle orecchie.
La figura di Saskia qui impersona una regina fedele e ricca ma non sappiamo esattamente se faccia riferimento ad Artemisia o a Sofonisba.
La damigella, che le sta di fronte, è nell’atto di porgerle una coppa, fatta con una conchiglia di nautilus; posta di tre quarti, intravediamo appena la guancia della fanciulla, mentre di fronte a lei, emerge dal buio una misteriosa presenza che l’osservatore non vede distintamente.
Queste due figure, secondarie rispetto ad Artemisia, sono “una firma” di Rembrandt e sono legate alla sua continua riflessione sul concetto di percezione della raffigurazione: la vicinanza di una donna di spalle, che non possiamo vedere, e il mistero della lontananza, di qualcuno che possiamo solo intuire, poi c'è Artemisia... o Sofonisba.

Una moglie e due regine
Pensare che Rembrandt ha lavorato tanto ad un'opera e si è dimenticato di lasciare una traccia del significato non convince.
Per dipingere ci vuole tempo, non è paragonabile all'atto quasi casuale che compiamo oggi quando scattiamo una foto: quest'ultimo può essere compiuto senza piena consapevolezza o lunga riflessione, la pittura è un creare più lento del pensiero per cui evidentemente Rembrandt ha scelto e considerato l'ambiguità del soggetto.

A partire dal 1634, anno del matrimonio con Saskia, Rembrandt la ritrae in costume diverse volte ma in fondo il messaggio sotteso a queste raffigurazioni era sempre quello: la rappresentazione dell'amore che lo legava alla moglie. Quindi Saskia vestita da Flora celebra la fecondità della coppia, Saskia prostituta (il dipinto allude alla parabola del figliol prodigo, 1635) con Rembrandt che brinda celebra la loro felicità, Saskia Artemisia o Sofonisba celebra la loro fedeltà. Ecco il senso della mano sul libro e di quello strano contenitore. Una sorta di lessico amoroso.

La misura della fedeltà
La conchiglia del nautilus, infatti, è associata al rapporto aureo che è un numero irrazionale e indicato con la lettera greca φ (fi). La spirale contiene all'infinito le proporzioni della sezione aurea. Secondo l'applicazione artistica di questo concetto esso è l'espressione dell'impossibilità umana di comprendere e misurare esattamente, quindi è la dimostrazione del limite dell'uomo e della presenza di Dio.
Il liquido che Artemisia-Sofonisba si appresta a bere è una bevanda mischiata con le ceneri del marito o col veleno, a richiamare l’attenzione sul limite della vita umana e sull'eternità dell'amore.
Romantico? Drammatico?
Affascinante.
Il fascino proviene dalla libertà stilistica della realizzazione: quando Rembrandt dipinge gioielli e vesti e capelli in quel modo, come se li partorisse dal buio e li facesse avanzare in una maniera plastica, usa il pennello come fosse uno scalpello e accumula materiale pittorico. La figura del fondo, come se non fosse ancora del tutto chiamata alla vita, è come un essere in nuce e ancora irriconoscibile, esattamente come quando si fatica a distinguere una figura lontana...
Essa, però, ha una funzione importante perchè dà una grande forza plastica ad Artemisia che, si direbbe oggi, “buca lo schermo”. La damigella più vicina a noi è proiettata nel nostro spazio ma è girata, non può rubare la scena alla protagonista, infatti ha un abito scuro, è solo una damigella e la sua funzione è quella di dare solennità alla regina e supporto all'amaro calice.
Proprio così, le due dame sono figure che misurano lo spazio: non le architetture, perché Rembrandt non è italiano e non conosce o, meglio, non è interessato a replicare, la lezione fiorentina.
Rembrandt utilizza spesso la posizione di tre quarti che pone i corpi immersi in uno spazio profondo e sperimentabile fisicamente, ma non è misurabile matematicamente.
Artemisia rappresenta per il pittore la realtà vicina, la felicità che vorrebbe eternare, e lo fa riproponendo il mito delle mogli fedeli che restano unite al loro uomo anche oltre la morte. La mano sul libro, il giuramento, riprende e enfatizza il concetto di fedeltà e di lealtà.

Conclusioni
Se pensiamo alla donna come la concepisce tecnicamente Rembrandt, come un'insieme di colore che prende corpo e abita lo spazio -più che misurarlo- e ne diventa essa stessa la misura, percepiamo quanto sia importante e moderno il suo linguaggio. Lo spazio è concepito nella misura in cui è abitato da una figura, come se fosse fatto per lei.
La lezione di Rembrandt va oltre l'esperienza pittorica in questo senso.
Anche l'uso del mito è allusivo e celebrativo, è veicolo di rappresentazione di concetti astratti che tendono ad eternare l'esperienza umana del quotidiano: come se la storia di una donna, divenuta mito e innalzata ad esempio, potesse ancora incarnarsi nel quotidiano e poi ritornare mito, attraverso la pittura.


 Brano tratto da "Un cuore così bianco" di Javier Marìas pp 120-127
... Ricordo il suo panico, quando lavorava al Prado, verso qualsiasi incidente o perdita, un deterioramento, un minimo guasto, così come nei confronti dei guardiani e dei sorveglianti del museo, i quali, diceva, avrebbero dovuto essere pagati profumatamente e trattati nel modo migliore, in quanto da loro dipendeva non soltanto la sicurezza e la cura, ma l’esistenza stessa delle opere d’arte. Las Meninas, diceva, esiste grazie alla benevolenza e al perdono quotidiano dei guardiani, che potrebbero distruggerlo in qualsiasi momento, se lo volessero, per questo bisogna farli sentire orgogliosi e allegri e in condizioni psichiche soddisfacenti. Lui, con mille pretesti (non era compito suo, non lo era di nessuno), cercava di informarsi sulla vita dei sorveglianti, se erano tranquilli o nervosi, oberati dai debiti o senza problemi economici, se le loro mogli o i loro mariti (il personale è misto) li trattavano bene o in modo brutale, se i loro figli erano motivo di gioia o piccoli psicopatici che li facevano diventare matti, sempre a interessarsi di loro e sorvegliarli per salvaguardare le opere d’arte, proteggerle dalle loro ire o accessi di risentimento. Mio padre era perfettamente consapevole che un uomo o una donna che passa i suoi giorni rinchiuso in una sala a guardare sempre le stesse pitture, ore e ore ogni mattina e a volte il pomeriggio, seduto su un seggiolino senza far altro che sorvegliare i visitatori e guardare le tele (è proibito anche fare cruciverba), potrebbe impazzire, propiziare catastrofi o sviluppare un odio mortale verso quei quadri. Per questo si occupava personalmente, durante il periodo trascorso al Prado, di cambiare ogni mese la collocazione dei guardiani, perché almeno potessero vedere le stesse tele solo per trenta giorni e far affievolire il loro odio, oppure per far loro cambiare l’oggetto del proprio odio prima che fosse troppo tardi. Di un’altra cosa era assolutamente cosciente: anche se il guardiano fosse stato punito o arrestato, se una mattina avesse deciso di distruggere Las Meninas, Las Meninas sarebbe stato distrutto esattamente come i Dürer di Brema – se li hanno distrutti i bombardamenti – in assenza di un sorvegliante che ne impedisse la distruzione essendo proprio il sorvegliante a distruggere, con tutto il tempo a disposizione per portare a termine il suo disastro e nessuno a poterlo fermare salvo se stesso. Sarebbe irreversibile, non ci sarebbe modo di recuperarlo.
Una volta usci dal suo ufficio quasi all’ora di chiusura, quando buona parte dei visitatori era già uscita, e vide un vecchio guardiano di nome Mateu (stava li da venticinque anni) che giocava con un accendino di quelli non ricaricabili e la cornice di un Rembrandt, concretamente il bordo inferiore sinistro dell’Artemisia, del 1634, l’unico Rembrandt certo del Museo del Prado, in cui la suddetta Artemisia, con i lineamenti molto simili a quelli di Saskia, moglie e modella del pittore, guarda di sbieco una coppa misteriosa che le viene offerta da una giovane serva inginocchiata e quasi di spalle. La scena è stata interpretata in due modi, come Artemisia, regina di Alicarnasso, nell’atto di bere la coppa con le ceneri di Mausolo, il marito morto per il quale aveva fatto erigere un sepolcro considerato una delle sette meraviglie del mondo antico (da lì mausoleo), o come Sofonisba, figlia del cartaginese Asdrubale, che per non cadere viva nelle mani di Scipione e i suoi uomini, che la reclamavano formalmente, chiese al nuovo sposo Massinissa una coppa di veleno come regalo di nozze, coppa che secondo la leggenda le venne offerta a causa della fedeltà in pericolo, anche se Sofonisba non era stata solo sua ma era stata in precedenza la sposa di un altro, Siface, capo dei masessilliani, a cui, di fatto, l’aveva appena portata via il secondo e saccheggiatore marito (il suddetto Massinissa) durante la confusa presa di Cirta, oggi Costantina, in Algeria. Dunque è difficile sapere davanti al quadro se in onore di Mausolo Artemisia stia per bere ceneri maritali o marital veleno Sofonisba per colpa di Massinissa; anche se, dall’espressione ambigua di entrambe, sembra piuttosto che l’una o l’altra abbiano ingerito, non senza esitazione, qualche intruglio adulterino. Sia come sia, sullo sfondo c’è una testa di vecchia molto phi concentrata sulla coppa che sulla serva o sulla stessa Artemisia (se fosse stata Sofonisba, probabilmente il veleno lo avrebbe messo la vecchia), non si vede molto bene, lo sfondo è una penombra troppo misteriosa o è troppo sporco, e la figura di Sofonisba è talmente luminosa e rilevante da rendere la vecchia ancor più sfumata.
Al Prado in quell’epoca non c’erano allarmi antincendio automatici, ma solo estintori. Mio padre con un certo sforzo ne sganciò uno che era a portata di mano, e anche se ignorava come usarlo, lo nascose malamente dietro la schiena (peso tremendo e colore sgargiante) e si avvicinò lentamente a Mateu, che aveva già bruciacchiato un angolo della cornice e stava passando la fiamma molto vicino alla tela, su e giù e da parte a parte, come se lo volesse illuminare tutto, la serva e la vecchia e Artemisia e la coppa, anche un tavolo rotondo su cui ci sono dei plichi scritti (forse la richiesta formale di Scipione) e su cui Sofonisba appoggia la mano sinistra piuttosto grassottella.
- Che sta facendo, Mateu? – gli disse calmo mio padre. – Vuol vedere meglio il quadro ?
Mateu non si voltò, conosceva la voce di Ranz alla perfezione e sapeva che ogni giorno, prima di uscire, faceva un giro a caso per qualche sala per controllare che tutto fosse a posto.
- No, – rispose in tono naturale e spassionato. – Sto pensando di bruciarlo.
Mio padre, raccontava, avrebbe potuto dargli un colpo sul braccio per far cadere a terra l’accendino e renderlo inoffensivo, e poi allontanarlo con un abile calcio. Ma aveva le mani dietro la schiena occupate dall’estintore e poi la sola possibilità di fallire e aumentare la rabbia del guardiano Mateu lo fece desistere dal rischiare. Pensò che forse sarebbe stato meglio intrattenerlo senza che accendesse la fiamma (ardente sostanze bituminose) finché all’accendino non ricaricabile terminasse la carica, ma poteva durare troppo tempo se per disgrazia l’accendino fosse stato nuovo. Pensò anche di gridare aiuto, qualcuno sarebbe accorso, il danno di Mateu limitato e il fuoco non si sarebbe propagato ad altri quadri, ma in questo caso addio all’unico Rembrandt del Prado di sicura mano di Rembrandt, addio a Sofonisba e addio ad Artemisia, e pure a Mausolo e a Massinissa e a Saskia e a Siface. Tornò a chiedergli:
- Ehi, Mateu, le piace così poco ?
-Sono stufo di quella cicciona, – rispose Mateu. Mateu non sopportava Sofonisba. – Non mi piace quella cicciona con le perle, – insistette (ed è vero che Artemisia è grassa e nel Rembrandt porta delle perle al collo e sulla fronte). – Sembra più carina la servetta che le serve la coppa, ma non riesco a vederle bene la faccia.
Mio padre non riuscì a evitare una risposta burlona, e cioè sorpresa e logica:
- Già, – disse, – è stato dipinto così, certo, la cicciona di fronte e la serva di spalle.
Mateu il piromane ogni tanto spegneva l’accendino per qualche secondo, ma non lo allontanava dalla tela, e alla fine di quei secondi lo riaccendeva e riscaldava il Rembrandt.
-È questo il brutto, – disse senza guardare Ranz, – che è stato dipinto così per sempre, e noi restiamo qui senza sapere cosa succede, vede, signor Ranz, non c’è modo di vedere la faccia della ragazza né della vecchia sullo sfondo, l’unica cosa che si vede è la cicciona con le due collane che non smette mai di prendere la coppa. Che la beva una buona volta, e almeno posso vedere la ragazza, se si gira.
Mateu, un uomo abituato alla pittura, un uomo di sessant’anni con venticinque passati al Prado, improvvisamente voleva che continuasse la scena di un Rembrandt che non capiva (nessuno lo capisce, tra Artemisia e Sofonisba c’è un mondo di distanza, la distanza tra bere un morto e bere la morte, tra aumentare la vita e morire, tra dilatarla e uccidersi). Era assurdo, ma Ranz non volle rinunciare a farlo ragionare:
- Ma cerchi di capire che questo non è possibile, Mateu, – gli disse, – sono tutte e tre dipinte, non vede ? Dipinte. Lei ha visto molti film, ma questo non è un film. Deve capire che non c’è modo di vederle diversamente, questo è un quadro. Un quadro.
-Per questo lo distruggo, – disse Mateu, di nuovo con l’accendino che accarezzava la tela.
-E poi, – aggiunse mio padre cercando di distrarlo e con una punta di pignoleria (mio padre è pedante), – quella sulla fronte non è una collana, ma un diadema, anche se di perle.
Ma Mateu non ci fece caso. Si soffiò via meccanicamente dei pelucchi dall’uniforme.
L’estintore sorretto a fatica stava spezzando i polsi di Ranz, che rinunciò a tenerlo nascosto e lo prese tra le braccia come un bambino, il suo colore carminio ben visibile. Il sorvegliante Mateu se ne accorse.
- Senta un po’, ma che ci fa con quello? – rimproverò mio padre. – Non sa che è proibito smontarli?
Mateu si era finalmente voltato sentendo il baccano provocato dall’incauto maneggio dell’estintore, che nel tragitto dalla schiena alle braccia era caduto in terra facendo saltare delle schegge dal pavimento, ma mio padre non osò avvalersi di quel momento di distrazione. Tuttavia dovette pensarci.
- Non si preoccupi, Mateu, – gli disse, – lo porto via perché bisogna aggiustarlo, non funziona -. E ne approfittò per lasciarlo in terra con gran sollievo. Prese il fazzoletto di seta color ciliegia che portava come ornamento nella tasca della giacca e si asciugò la fronte, un fazzoletto dal tatto e dal colore gradevoli, era da ornamento più che da usare, s’intonava con l’estintore.
- Le dico che lo distruggo, – ripeté Mateu, e minacciò Saskia con l’accendino.
- Quel quadro è d’enorme valore, Mateu. Vale miliardi, – gli disse Ranz cercando di vedere se il riferimento ai soldi poteva fargli recuperare la ragione.
Ma il guardiano continuava a giocare con l’accendino, accendendolo e spegnendolo e accendendolo, e decise di bruciacchiare ancora la cornice, una cornice molto bella, antica.
- Come se non bastasse, – rispose sprezzante. – Come se non bastasse quella merda di cicciona vale miliardi, che cazzo.
La bella cornice annerita. Mio padre pensò allora di ricordargli il carcere, ma lo scartò subito. Pensò un istante, e poi un altro, e alla fine cambiò tattica. Prese di colpo l’estintore da terra e gli disse:
- Lei ha ragione, Mateu, ha ragione. Ma non lo bruci perché potrebbe incendiare altri quadri. Lasci fare a me. Lo distruggo io con l’estintore, che è bello pesante. Sulla cicciona cadrà un bel peso e almeno se ne andrà affanculo.
E Ranz alzò l’estintore e lo sostenne in alto con le due mani come un sollevatore di pesi, disposto a tirarlo con violenza contro Sofonisba e contro Artemisia.
Fu allora che Mateu si fece serio.
-Senta un po’, – gli disse Mateu, – ma che vuol fare, così rovinerà il quadro.
- Lo faccio a pezzi, – disse Ranz.
Ci fu un momento di esitazione, mio padre con le braccia in alto che reggevano quell’estintore così rosso, Mateu con in mano l’accendino ancora acceso, la fiamma sospesa che vacillava. Guardò mio padre, guardò il quadro. Ranz non riusciva più a sopportare quel peso. Allora Mateu spense l’accendino, lo mise in tasca, allargò le braccia come un lottatore e disse minaccioso:
- Fermo li, fermo eh? Non mi costringa.
Mateu non fu licenziato perché mio padre non parlò di quell’episodio, e neppure il guardiano denunciò Ranz per aver cercato di polverizzare il Rembrandt con un estintore rotto. Nessuno notò le bruciature della cornice (forse qualche visitatore indiscreto a cui fu raccomandato di non fare domande e il sostituto corrotto), e in poco tempo fu cambiata con un’altra molto simile, ma non antica. Secondo Ranz, se Mateu era stato un sorvegliante solerte per venticinque anni, non c’era motivo perché non potesse più esserlo, dopo un passeggero attacco di furore. Non solo; attribuiva la sua azione e l’attentato alla mancanza di azione e attentati, e considerava come prova della sua fedeltà il fatto che al vedere il quadro che lui detestava minacciato da un altro individuo che in più era un superiore, aveva prevalso il senso di responsabilità sul suo vero desiderio di bruciare Artemisia. Fu immediatamente trasferito in un’altra sala, di primitivi, le cui forme sono meno rotonde ed è più difficile che irritino (e alcuni sono palinschematici, ossia raccontano storie complete nella stessa superficie o spazio). Per il resto, mio padre si limitò a interessarsi ancora di più alla sua vita, a fargli coraggio davanti alla vecchiaia in agguato e a non perderlo d’occhio durante le feste che due volte l’anno, il giorno di chiusura, si organizzavano per il personale del museo, prevalentemente nella sala grande dei Velazquez. Tutti gli impiegati con le rispettive famiglie, dal direttore (che faceva atto di presenza solo un minuto e aveva una stretta di mano moscia) fino alle donne delle pulizie (che erano quelle che facevano più baccano a si divertivano di più perché tanto dovevano fermarsi a pulire quel disastro), si riunivano a bere e a mangiare e a conversare e a ballare (conversare si dice per dire) in una specie di sagra semestrale concepita da mio padre secondo il modello o ragionamento carnevalesco per far divertire i sorveglianti e permettere loro di sfogarsi e di perdere la compostezza proprio li dove gli altri giorni dovevano mantenerla. E lui controllava che il cibo e le bevande che venivano serviti fossero tali le cui macchie non potessero rovinare né danneggiare i dipinti, e in questo modo era permesso inciampare ed esagerare: io da bambino ho visto la gassosa su Las Meninas e le meringhe su La resa di Breda.

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