Rembrandt,
Artemisia, 1634, olio su tela, cm 142 x 153, Madrid, Museo del
Prado.
Artemisia
è un'opera difficile: osservandola si sperimenta l'irraggiungibile
lontananza storica e geografica, ma anche l'inaccessibile volontà
della mente che l'ha concepita.
In
questo dipinto sono riassunte tante iconografie, tanti punti di vista che nella storia dell'arte si sono avvicendati nella rappresentazione della donna: la donna
del mito, attraverso la storia di Artemisia, la donna
occidentale, in quanto è ritratta Saskia la moglie di Rembrandt,
la donna che legge infatti un grosso volume è raffigurato
al suo fianco; naturalmente sia Saskia, che ha prestato il volto
ad Artemisia, sia la mitica regina della Caria, celebrano i loro mariti.
Artemisia
è frontale, in piedi, solenne, guarda davanti a sè. E' abbigliata
con ricche vesti occidentali che non l'identificano con la sua terra,
Caria, regione dell'odierna Turchia; con lei stanno due dame e
accanto a lei è posto un grande libro sul quale posa la mano come se
stesse giurando. Artemisia moglie di Mausolo, alla morte del marito,
divenne regina e mausoleo del suo perduto amore.
Una
lettura per andare oltre.
L'incontro
con Artemisia, prima ancora di averla vista al museo del Prado, è
avvenuto attraverso un brano del romanzo Un cuore così bianco di Javier Marìas (nell'edizione Einaudi pp.121-127 lo puoi leggere in coda al post) che ci propone una
lettura emozionale di questo dipinto. L’interessante del racconto
consente di pensare, senza suscitare scandalo, che un quadro possa
essere contemporaneamente capolavoro e brutto, un privilegio molto
esclusivo.
Senza
scomodare il concetto di brutto, che -come quello di bello- è
variabile e non codificabile, direi che leggere un racconto che
sollecita la riflessione sulla irritazione e sulla frustrazione che
si può provare davanti a questa opera, è molto particolare. Sgombra
il campo e rende liberi di apprezzare o meno quello che tutti
ammirano.
Marìas
narra come Mateu, un custode del Prado, stufo di guardare il volto
grassoccio di Artemisia di Rembrandt abbia concepito l’idea di
bruciare il dipinto e con un accendino si apprestava a dargli fuoco.
Nel
consueto giro ispettivo che Ranz compiva prima della chiusura del
museo, si avvide delle intenzioni di Mateu e si apprestò a fermarlo.
Comprendendo la frustrante esperienza del custode che era costretto
ad osservare per molte ore al giorno quella Artemisia non bella ma
protagonista di un capolavoro inestimabile; rendendosi conto di
quanto la fissità del dipinto -che non riusciva a mostrare
l’evoluzione della scena né il volto della servetta raffigurata di
spalle- potesse inquietare Mateu, egli finse di voler ridurre in
mille pezzi la tela servendosi di un estintore. Come colto da un
folgorante senso del dovere, Mateu ha impedito a Ranz di compiere
l’insano gesto.
Ecco,
dunque, che, guardando l’Artemisia di Rembrandt con gli
occhi di Marìas diventa legittimo che un capolavoro possa apparire
brutto e irritante.
Perché,
dunque, è irritante questo dipinto? Cosa disturba di esso? E cosa
voleva dire Rembrandt?
La
risposta, non unica né univoca, può forse provenire da una più
attenta lettura delle immagini, dal momento che guardare non basta.
Forse
analizzare qualche aspetto della storia di Rembrandt può aiutare.
La
bellezza olandese
Rembrandt
non è mai uscito dall'Olanda e non si è mai confrontato con le
opere italiane. È quindi importante sapere che questo pittore è
totalmente disinteressato al modello di bellezza "ideale", al concetto
dell'arte come recupero del classico, alla veste mitologica che i
pittori italiani propongono. Non è preoccupato nemmeno dei concetti
“filosofici” che in Italia sono al centro del dibattito sulla
pittura, come ad esempio, se sia più importante il disegno o il
colore.
Rembrandt,
essendo fuori da tutto ciò, è libero di esprimersi. Inoltre, egli
fece una carriera opposta a quella degli altri pittori, divenne
subito famoso e ricco poi, progressivamente fu dimenticato e quasi
abbandonato, rimanendo libero anche dal vincolo del committente.
Tutto
questo per dire che Rembrandt è capace e propone una pittura "libera" e quindi noi lo percepiamo con un'aspetto anticoformistico piuttosto innovativo nel suo contesto storico.
Egli
è diverso, come lo sono i pittori moderni. Essere libero significa
non dipingere per la committenza ma per un mercante d’arte,
significa non dover usare la sua tecnica per compiacere un
committente che voleva veicolare contenuti suoi attraverso le
immagini eseguite dall’artista Rembrandt.
È
questo che fa la differenza.
Raffigurando
quella che Marìas identifica come la “donna grassa”, Rembrandt
non ha inteso fare una donna brutta. Sappiamo che la modella è la
giovane moglie Saskia, quindi la donna esprime un'immagine che
Rembrandt ritiene bella, amata, dolce. L'intenzione è di esprimere
l'amore per la giovane moglie che è vestita riccamente, è
abbigliata con uno sfarzo e una eleganza che suggerisce un ambito
regale, anche grazie alle due donne che l’accompagnano, al grande
libro che non è un oggetto comune.
Ha
una veste dorata con ricami, alamari e una mantellina di pelliccia,
ha gioielli d'oro e pietre preziose e perle ovunque: nei capelli, al
collo, sulle braccia, alle orecchie.
La
figura di Saskia qui impersona una regina fedele e ricca ma non
sappiamo esattamente se faccia riferimento ad Artemisia o a
Sofonisba.
La
damigella, che le sta di fronte, è nell’atto di porgerle una
coppa, fatta con una conchiglia di nautilus; posta di tre quarti, intravediamo appena la guancia della fanciulla, mentre di fronte a lei, emerge dal
buio una misteriosa presenza che l’osservatore non vede
distintamente.
Queste
due figure, secondarie rispetto ad Artemisia, sono “una firma” di
Rembrandt e sono legate alla sua continua riflessione sul concetto di
percezione della raffigurazione: la vicinanza di una donna di spalle,
che non possiamo vedere, e il mistero della lontananza, di qualcuno
che possiamo solo intuire, poi c'è Artemisia... o Sofonisba.
Una
moglie e due regine
Pensare
che Rembrandt ha lavorato tanto ad un'opera e si è dimenticato di
lasciare una traccia del significato non convince.
Per
dipingere ci vuole tempo, non è paragonabile all'atto quasi casuale che compiamo oggi quando scattiamo una foto: quest'ultimo può essere compiuto senza piena consapevolezza o lunga riflessione, la
pittura è un creare più lento del pensiero per cui
evidentemente Rembrandt ha scelto e considerato l'ambiguità del
soggetto.
A
partire dal 1634, anno del matrimonio con Saskia, Rembrandt la ritrae
in costume diverse volte ma in fondo il messaggio sotteso a queste
raffigurazioni era sempre quello: la rappresentazione dell'amore che
lo legava alla moglie. Quindi Saskia vestita da Flora celebra la
fecondità della coppia, Saskia prostituta (il dipinto allude alla
parabola del figliol prodigo, 1635) con Rembrandt che brinda celebra
la loro felicità, Saskia Artemisia o Sofonisba celebra la loro
fedeltà. Ecco il senso della mano sul libro e di quello strano
contenitore. Una sorta di lessico amoroso.
La
misura della fedeltà
La
conchiglia del nautilus, infatti, è associata al rapporto aureo che
è un numero irrazionale e indicato con la lettera greca φ (fi). La
spirale contiene all'infinito le proporzioni della sezione aurea.
Secondo l'applicazione artistica di questo concetto esso è
l'espressione dell'impossibilità umana di comprendere e misurare
esattamente, quindi è la dimostrazione del limite dell'uomo e della
presenza di Dio.
Il
liquido che Artemisia-Sofonisba si appresta a bere è una bevanda
mischiata con le ceneri del marito o col veleno, a richiamare
l’attenzione sul limite della vita umana e sull'eternità
dell'amore.
Romantico?
Drammatico?
Affascinante.
Il fascino proviene dalla
libertà stilistica della realizzazione: quando Rembrandt dipinge
gioielli e vesti e capelli in quel modo, come se li partorisse dal
buio e li facesse avanzare in una maniera plastica, usa il pennello
come fosse uno scalpello e accumula materiale pittorico. La figura
del fondo, come se non fosse ancora del tutto chiamata alla vita, è
come un essere in nuce e ancora irriconoscibile, esattamente come
quando si fatica a distinguere una figura lontana...
Essa,
però, ha una funzione importante perchè dà una grande forza
plastica ad Artemisia che, si direbbe oggi, “buca lo schermo”. La
damigella più vicina a noi è proiettata nel nostro spazio ma è
girata, non può rubare la scena alla protagonista, infatti ha un
abito scuro, è solo una damigella e la sua funzione è quella di
dare solennità alla regina e supporto all'amaro calice.
Proprio
così, le due dame sono figure che misurano lo spazio: non le
architetture, perché Rembrandt non è italiano e non conosce o, meglio, non è interessato a replicare, la
lezione fiorentina.
Rembrandt
utilizza spesso la posizione di tre quarti che pone i corpi immersi
in uno spazio profondo e sperimentabile fisicamente, ma non è
misurabile matematicamente.
Artemisia
rappresenta per il pittore la realtà vicina, la felicità che
vorrebbe eternare, e lo fa riproponendo il mito delle mogli fedeli
che restano unite al loro uomo anche oltre la morte. La mano sul
libro, il giuramento, riprende e enfatizza il concetto di fedeltà e
di lealtà.
Conclusioni
Se
pensiamo alla donna come la concepisce tecnicamente Rembrandt, come
un'insieme di colore che prende corpo e abita lo spazio -più che
misurarlo- e ne diventa essa stessa la misura, percepiamo quanto sia
importante e moderno il suo linguaggio. Lo spazio è concepito nella
misura in cui è abitato da una figura, come se fosse fatto per lei.
La
lezione di Rembrandt va oltre l'esperienza pittorica in questo senso.
Anche
l'uso del mito è allusivo e celebrativo, è veicolo di
rappresentazione di concetti astratti che tendono ad eternare
l'esperienza umana del quotidiano: come se la storia di una donna,
divenuta mito e innalzata ad esempio, potesse ancora incarnarsi nel
quotidiano e poi ritornare mito, attraverso la pittura.
Brano tratto da "Un cuore così bianco" di Javier Marìas pp 120-127
...
Ricordo il suo panico, quando lavorava al Prado, verso qualsiasi
incidente o perdita, un deterioramento, un minimo guasto, così come
nei confronti dei guardiani e dei sorveglianti del museo, i quali,
diceva, avrebbero dovuto essere pagati profumatamente e trattati nel
modo migliore, in quanto da loro dipendeva non soltanto la sicurezza
e la cura, ma l’esistenza stessa delle opere d’arte. Las Meninas,
diceva, esiste grazie alla benevolenza e al perdono quotidiano dei
guardiani, che potrebbero distruggerlo in qualsiasi momento, se lo
volessero, per questo bisogna farli sentire orgogliosi e allegri e in
condizioni psichiche soddisfacenti. Lui, con mille pretesti (non era
compito suo, non lo era di nessuno), cercava di informarsi sulla vita
dei sorveglianti, se erano tranquilli o nervosi, oberati dai debiti o
senza problemi economici, se le loro mogli o i loro mariti (il
personale è misto) li trattavano bene o in modo brutale, se i loro
figli erano motivo di gioia o piccoli psicopatici che li facevano
diventare matti, sempre a interessarsi di loro e sorvegliarli per
salvaguardare le opere d’arte, proteggerle dalle loro ire o accessi
di risentimento. Mio padre era perfettamente consapevole che un uomo
o una donna che passa i suoi giorni rinchiuso in una sala a guardare
sempre le stesse pitture, ore e ore ogni mattina e a volte il
pomeriggio, seduto su un seggiolino senza far altro che sorvegliare i
visitatori e guardare le tele (è proibito anche fare cruciverba),
potrebbe impazzire, propiziare catastrofi o sviluppare un odio
mortale verso quei quadri. Per questo si occupava personalmente,
durante il periodo trascorso al Prado, di cambiare ogni mese la
collocazione dei guardiani, perché almeno potessero vedere le stesse
tele solo per trenta giorni e far affievolire il loro odio, oppure
per far loro cambiare l’oggetto del proprio odio prima che fosse
troppo tardi. Di un’altra cosa era assolutamente cosciente: anche
se il guardiano fosse stato punito o arrestato, se una mattina avesse
deciso di distruggere Las Meninas, Las Meninas sarebbe stato
distrutto esattamente come i Dürer di Brema – se li hanno
distrutti i bombardamenti – in assenza di un sorvegliante che ne
impedisse la distruzione essendo proprio il sorvegliante a
distruggere, con tutto il tempo a disposizione per portare a termine
il suo disastro e nessuno a poterlo fermare salvo se stesso. Sarebbe
irreversibile, non ci sarebbe modo di recuperarlo.
Una
volta usci dal suo ufficio quasi all’ora di chiusura, quando buona
parte dei visitatori era già uscita, e vide un vecchio guardiano di
nome Mateu (stava li da venticinque anni) che giocava con un
accendino di quelli non ricaricabili e la cornice di un Rembrandt,
concretamente il bordo inferiore sinistro dell’Artemisia,
del 1634, l’unico Rembrandt certo del Museo del Prado, in cui la
suddetta Artemisia,
con i lineamenti molto simili a quelli di Saskia, moglie e modella
del pittore, guarda di sbieco una coppa misteriosa che le viene
offerta da una giovane serva inginocchiata e quasi di spalle. La
scena è stata interpretata in due modi, come Artemisia, regina di
Alicarnasso, nell’atto di bere la coppa con le ceneri di Mausolo,
il marito morto per il quale aveva fatto erigere un sepolcro
considerato una delle sette meraviglie del mondo antico (da lì
mausoleo), o come Sofonisba, figlia del cartaginese Asdrubale, che
per non cadere viva nelle mani di Scipione e i suoi uomini, che la
reclamavano formalmente, chiese al nuovo sposo Massinissa una coppa
di veleno come regalo di nozze, coppa che secondo la leggenda le
venne offerta a causa della fedeltà in pericolo, anche se Sofonisba
non era stata solo sua ma era stata in precedenza la sposa di un
altro, Siface, capo dei masessilliani, a cui, di fatto, l’aveva
appena portata via il secondo e saccheggiatore marito (il suddetto
Massinissa) durante la confusa presa di Cirta, oggi Costantina, in
Algeria. Dunque è difficile sapere davanti al quadro se in onore di
Mausolo Artemisia stia per bere ceneri maritali o marital veleno
Sofonisba per colpa di Massinissa; anche se, dall’espressione
ambigua di entrambe, sembra piuttosto che l’una o l’altra abbiano
ingerito, non senza esitazione, qualche intruglio adulterino. Sia
come sia, sullo sfondo c’è una testa di vecchia molto phi
concentrata sulla coppa che sulla serva o sulla stessa Artemisia (se
fosse stata Sofonisba, probabilmente il veleno lo avrebbe messo la
vecchia), non si vede molto bene, lo sfondo è una penombra troppo
misteriosa o è troppo sporco, e la figura di Sofonisba è talmente
luminosa e rilevante da rendere la vecchia ancor più sfumata.
Al
Prado in quell’epoca non c’erano allarmi antincendio automatici,
ma solo estintori. Mio padre con un certo sforzo ne sganciò uno che
era a portata di mano, e anche se ignorava come usarlo, lo nascose
malamente dietro la schiena (peso tremendo e colore sgargiante) e si
avvicinò lentamente a Mateu, che aveva già bruciacchiato un angolo
della cornice e stava passando la fiamma molto vicino alla tela, su e
giù e da parte a parte, come se lo volesse illuminare tutto, la
serva e la vecchia e Artemisia e la coppa, anche un tavolo rotondo su
cui ci sono dei plichi scritti (forse la richiesta formale di
Scipione) e su cui Sofonisba appoggia la mano sinistra piuttosto
grassottella.
-
Che sta facendo, Mateu? – gli disse calmo mio padre. – Vuol
vedere meglio il quadro ?
Mateu
non si voltò, conosceva la voce di Ranz alla perfezione e sapeva che
ogni giorno, prima di uscire, faceva un giro a caso per qualche sala
per controllare che tutto fosse a posto.
-
No, – rispose in tono naturale e spassionato. – Sto pensando di
bruciarlo.
Mio
padre, raccontava, avrebbe potuto dargli un colpo sul braccio per far
cadere a terra l’accendino e renderlo inoffensivo, e poi
allontanarlo con un abile calcio. Ma aveva le mani dietro la schiena
occupate dall’estintore e poi la sola possibilità di fallire e
aumentare la rabbia del guardiano Mateu lo fece desistere dal
rischiare. Pensò che forse sarebbe stato meglio intrattenerlo senza
che accendesse la fiamma (ardente sostanze bituminose) finché
all’accendino non ricaricabile terminasse la carica, ma poteva
durare troppo tempo se per disgrazia l’accendino fosse stato nuovo.
Pensò anche di gridare aiuto, qualcuno sarebbe accorso, il danno di
Mateu limitato e il fuoco non si sarebbe propagato ad altri quadri,
ma in questo caso addio all’unico Rembrandt del Prado di sicura
mano di Rembrandt, addio a Sofonisba e addio ad Artemisia, e pure a
Mausolo e a Massinissa e a Saskia e a Siface. Tornò a chiedergli:
-
Ehi, Mateu, le piace così poco ?
-Sono
stufo di quella cicciona, – rispose Mateu. Mateu non sopportava
Sofonisba. – Non mi piace quella cicciona con le perle, –
insistette (ed è vero che Artemisia è grassa e nel Rembrandt porta
delle perle al collo e sulla fronte). – Sembra più carina la
servetta che le serve la coppa, ma non riesco a vederle bene la
faccia.
Mio
padre non riuscì a evitare una risposta burlona, e cioè sorpresa e
logica:
-
Già, – disse, – è stato dipinto così, certo, la cicciona di
fronte e la serva di spalle.
Mateu
il piromane ogni tanto spegneva l’accendino per qualche secondo, ma
non lo allontanava dalla tela, e alla fine di quei secondi lo
riaccendeva e riscaldava il Rembrandt.
-È
questo il brutto, – disse senza guardare Ranz, – che è stato
dipinto così per sempre, e noi restiamo qui senza sapere cosa
succede, vede, signor Ranz, non c’è modo di vedere la faccia della
ragazza né della vecchia sullo sfondo, l’unica cosa che si vede è
la cicciona con le due collane che non smette mai di prendere la
coppa. Che la beva una buona volta, e almeno posso vedere la ragazza,
se si gira.
Mateu,
un uomo abituato alla pittura, un uomo di sessant’anni con
venticinque passati al Prado, improvvisamente voleva che continuasse
la scena di un Rembrandt che non capiva (nessuno lo capisce, tra
Artemisia e Sofonisba c’è un mondo di distanza, la distanza tra
bere un morto e bere la morte, tra aumentare la vita e morire, tra
dilatarla e uccidersi). Era assurdo, ma Ranz non volle rinunciare a
farlo ragionare:
-
Ma cerchi di capire che questo non è possibile, Mateu, – gli
disse, – sono tutte e tre dipinte, non vede ? Dipinte. Lei ha visto
molti film, ma questo non è un film. Deve capire che non c’è modo
di vederle diversamente, questo è un quadro. Un quadro.
-Per
questo lo distruggo, – disse Mateu, di nuovo con l’accendino che
accarezzava la tela.
-E
poi, – aggiunse mio padre cercando di distrarlo e con una punta di
pignoleria (mio padre è pedante), – quella sulla fronte non è una
collana, ma un diadema, anche se di perle.
Ma
Mateu non ci fece caso. Si soffiò via meccanicamente dei pelucchi
dall’uniforme.
L’estintore
sorretto a fatica stava spezzando i polsi di Ranz, che rinunciò a
tenerlo nascosto e lo prese tra le braccia come un bambino, il suo
colore carminio ben visibile. Il sorvegliante Mateu se ne accorse.
-
Senta un po’, ma che ci fa con quello? – rimproverò mio padre. –
Non sa che è proibito smontarli?
Mateu
si era finalmente voltato sentendo il baccano provocato dall’incauto
maneggio dell’estintore, che nel tragitto dalla schiena alle
braccia era caduto in terra facendo saltare delle schegge dal
pavimento, ma mio padre non osò avvalersi di quel momento di
distrazione. Tuttavia dovette pensarci.
-
Non si preoccupi, Mateu, – gli disse, – lo porto via perché
bisogna aggiustarlo, non funziona -. E ne approfittò per lasciarlo
in terra con gran sollievo. Prese il fazzoletto di seta color
ciliegia che portava come ornamento nella tasca della giacca e si
asciugò la fronte, un fazzoletto dal tatto e dal colore gradevoli,
era da ornamento più che da usare, s’intonava con l’estintore.
-
Le dico che lo distruggo, – ripeté Mateu, e minacciò Saskia con
l’accendino.
-
Quel quadro è d’enorme valore, Mateu. Vale miliardi, – gli disse
Ranz cercando di vedere se il riferimento ai soldi poteva fargli
recuperare la ragione.
Ma
il guardiano continuava a giocare con l’accendino, accendendolo e
spegnendolo e accendendolo, e decise di bruciacchiare ancora la
cornice, una cornice molto bella, antica.
-
Come se non bastasse, – rispose sprezzante. – Come se non
bastasse quella merda di cicciona vale miliardi, che cazzo.
La
bella cornice annerita. Mio padre pensò allora di ricordargli il
carcere, ma lo scartò subito. Pensò un istante, e poi un altro, e
alla fine cambiò tattica. Prese di colpo l’estintore da terra e
gli disse:
-
Lei ha ragione, Mateu, ha ragione. Ma non lo bruci perché potrebbe
incendiare altri quadri. Lasci fare a me. Lo distruggo io con
l’estintore, che è bello pesante. Sulla cicciona cadrà un bel
peso e almeno se ne andrà affanculo.
E
Ranz alzò l’estintore e lo sostenne in alto con le due mani come
un sollevatore di pesi, disposto a tirarlo con violenza contro
Sofonisba e contro Artemisia.
Fu
allora che Mateu si fece serio.
-Senta
un po’, – gli disse Mateu, – ma che vuol fare, così rovinerà
il quadro.
-
Lo faccio a pezzi, – disse Ranz.
Ci
fu un momento di esitazione, mio padre con le braccia in alto che
reggevano quell’estintore così rosso, Mateu con in mano
l’accendino ancora acceso, la fiamma sospesa che vacillava. Guardò
mio padre, guardò il quadro. Ranz non riusciva più a sopportare
quel peso. Allora Mateu spense l’accendino, lo mise in tasca,
allargò le braccia come un lottatore e disse minaccioso:
-
Fermo li, fermo eh? Non mi costringa.
Mateu
non fu licenziato perché mio padre non parlò di quell’episodio, e
neppure il guardiano denunciò Ranz per aver cercato di polverizzare
il Rembrandt con un estintore rotto. Nessuno notò le bruciature
della cornice (forse qualche visitatore indiscreto a cui fu
raccomandato di non fare domande e il sostituto corrotto), e in poco
tempo fu cambiata con un’altra molto simile, ma non antica. Secondo
Ranz, se Mateu era stato un sorvegliante solerte per venticinque
anni, non c’era motivo perché non potesse più esserlo, dopo un
passeggero attacco di furore. Non solo; attribuiva la sua azione e
l’attentato alla mancanza di azione e attentati, e considerava come
prova della sua fedeltà il fatto che al vedere il quadro che lui
detestava minacciato da un altro individuo che in più era un
superiore, aveva prevalso il senso di responsabilità sul suo vero
desiderio di bruciare Artemisia. Fu immediatamente trasferito in
un’altra sala, di primitivi, le cui forme sono meno rotonde ed è
più difficile che irritino (e alcuni sono palinschematici, ossia
raccontano storie complete nella stessa superficie o spazio). Per il
resto, mio padre si limitò a interessarsi ancora di più alla sua
vita, a fargli coraggio davanti alla vecchiaia in agguato e a non
perderlo d’occhio durante le feste che due volte l’anno, il
giorno di chiusura, si organizzavano per il personale del museo,
prevalentemente nella sala grande dei Velazquez. Tutti gli impiegati
con le rispettive famiglie, dal direttore (che faceva atto di
presenza solo un minuto e aveva una stretta di mano moscia) fino alle
donne delle pulizie (che erano quelle che facevano più baccano a si
divertivano di più perché tanto dovevano fermarsi a pulire quel
disastro), si riunivano a bere e a mangiare e a conversare e a
ballare (conversare si dice per dire) in una specie di sagra
semestrale concepita da mio padre secondo il modello o ragionamento
carnevalesco per far divertire i sorveglianti e permettere loro di
sfogarsi e di perdere la compostezza proprio li dove gli altri giorni
dovevano mantenerla. E lui controllava che il cibo e le bevande che
venivano serviti fossero tali le cui macchie non potessero rovinare
né danneggiare i dipinti, e in questo modo era permesso inciampare
ed esagerare: io da bambino ho visto la gassosa su Las Meninas e le
meringhe su La resa di Breda.
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