venerdì 7 febbraio 2014

Al limitare dell'eternità (Duomo di Modena)

 La felicità non è fare tutto ciò che si vuole. E' volere tutto ciò che si fa (Nietzsche)

Sempre uguale eppure invisibile: il tempo scivola su paesaggi, città e persone, lascia i suoi segni e procede implacabile.
Mistero e condanna inflitto al vivere umano, il fluire del tempo scandisce l'altra condanna divina, quella del lavoro.
Così, proprio sul limitare tra lo spazio umano della città e quello divino della cattedrale, è rappresentato il tempo: l'incontro tra la limitata dimensione umana della vita  e la scansione dell'eternità, caratteristica divina, che si manifesta attraverso la ciclicità.
Nel duomo di Modena, questo dualismo complesso tra spazio e tempo è rappresentato, oltre che dal ciclo dei mesi nella porta della Pescheria, dalla figura bicefala in chiave di volta della porta maggiore in facciata

Questa figura è stata letta in due modi: dalla critica più recente (Frugoni) come la rappresentazione del segno zodiacale dei Gemelli, poi come Giano bifronte riprendendo una tradizione pagana, ma consolidata nelle cattedrali romaniche (Giano nel ciclo dei mesi di Arezzo: vedi qui, Giano del Maestro dei mesi di Ferrara: vedi qui-).
Bisogna subito riconoscere che una serie di anomalie (l'originalità della collocazione, lontano dal ciclo dei mesi; la posa particolare, con il fallo ostentato; l'iconografia dei volti, entrambi imberbi; l'inserimento tra il tralcio abitato)  ci fanno rimanere in quel noto limbo che gli storici dell'arte spesso abitano: quello del dubbio interpretativo.
Wiligelmo non ci dà le coordinate per capire, manca un documento miniato, una conferma coeva, un indizio schiacciante, che faccia pendere la bilancia per la lezione Gemelli o la lezione Giano.
 Ma forse in questa ambiguità sta gran parte del fascino dell'iconografia medievale, che non è decorazione o creazione del bello, men che meno celebrazione della tecnè degli scultori: le figure che escono dai marmi medievali sono oggetto di sapere di pochi e strumento di meditazione per tutti: parole di pietra che esprimono un sapere non solo religioso, ma universale (nel medioevo la divisione dei saperi non si poneva)

Proviamo  a pensare che l'ambiguità interpretativa non sia dovuta all'attuale perdita di documenti, ma che sia legata alla prassi antica della lettura a più livelli, alla meditazione, ad un  modo di usare le immagini che suscitino più significati. Questa pregnanza di significati diversi nella stessa rappresentazione è presente in molta parte dell'arte medievale e, nello specifico, nelle sculture di Wiligelmo del duomo di Modena.

La interpretazione della  figura a due teste come rappresentazione del segno zodiacale dei Gemelli è supportata dalla presenza dell'iscrizione dedicatoria situata da sinistra del protiro.
Du(m) Gemini Cancer/
corsu(m) consendit/
ovantes. Idibus/
in quintis Iunii sup t(em)p(o)r(e)/
mensis. Mille Dei/
carnis monos cen/
tu(m) minus annis./
Ista Domus clari/
fundatur Gemini/
ani. Inter scultores quan/
to sis dignus onore cla/
ret scultura nu(n)c Vuiligelme tua

"Mentre il Cancro raggiunge il corso dei Gemelli esultanti, alle quinte idi nel tempo del mese di giugno,negli anni dall'incarnazione di Dio mille e cento meno uno, è fondata questa casa dell'illustre Geminiano. Di quanto onore tu sia degno tra gli scultori, lo mostra ora, Viligemo, la tua scultura."

Nelle parole latine è evidente che Gemini e Geminiani sono formate dalla stessa radice e costituiscono la "fondazione della ecclesiale modenese".
La figura bicefala letta come segno dei Gemelli rimanda ad una simbologia temporale e identifica la figura del patrono. Il rimando a Giano invece fa riferimento all'ambito spaziale.
L'utilizzo del simbolo di derivazione pagana dà un respiro universale alla rappresentazione di questi concetti che si pongono come specifiche all'imprescindibile legame tra Dio e l'uomo che è la Chiesa.

Tempo, i Gemelli: La Chiesa nasce come segno della permanenza dell'incarnazione di Cristo, figlio di Dio, nel tempo umano. La fondazione dell'edificio inizia in un preciso giorno, donato dal Cielo, dagli astri: il tempo della "redenzione" inizia a Modena il 9 giugno 1099 con la posa della prima pietra o, secondo la computazione medievale, le quinte idi del mese di giugno dell'anno mille cento meno uno. Il tempo della redenzione da eterno diventa umano.
Esempio, Geminiano: La Chiesa modenese si fonda sull'esempio del Santo Vescovo Geminiano. La Santità di Cristo diviene tangibile nella figura storica (Geminiano è vissuto tra il 312 e il 397) e fisica di san Geminiano. La collocazione nella cripta, sotto all'altare principale, del corpo del Santo vescovo ribatte il concetto di pietra fondante.
Spazio, Giano:  divinità pagana del tempo vecchio e nuovo e delle porte. Giano qui, in chiave di volta, diviene il tramite tra spazio laico dell'uomo e quello divino della Chiesa.
Metopa con l'ermafrodito detto "potta"

Rimane da spiegare il fallo ostentato. In questo tentativo di interpretazione, in cui questa figura polisemica assolve a simbolo del trapasso tra la dimensione umana e quella divina, fa riferimento alla generazione: tema, anch'esso presente anche altrove nella iconografia del duomo. Il significato della generazione umana è premessa della rinascita nell'acqua del Battesimo. Questo significato riprende la ciclicità della vita cui alludono le braccia del bicefalo, intrecciate con i girali d'acanto. La vita che nasce e genera vita, come rappresentato anche nel mascherone mangiafoglia al centro dell'architrave del medesimo portale.
I diversi livelli interpretativi della figura di Giano-Gemelli ci forniscono, coerentemente alle lastre della Genesi, un significato complesso favorito dal fatto che la figura non è collegata alla rappresentazione dei mesi ma è posta in una posizione di grande importanza.
Wiligelmo, come usa fare magistralmente, reinterpreta anche lo stile classico e qui utilizza un espediente stilistico molto interessante: rappresenta il bicefalo di dimensioni maggiori rispetto alle altre figure dell'archivolto. Come gli antichi scultori classici la maggior dimensione della figura non è dato dall'effettivo spazio occupato, ma dal fatto che, pur essendo rappresentato in una posizione seduta, con le gambe piegate, occupa tutta l'altezza dell'estrodosso, come gli uomini che sono inseriti nei girali d'acanto.
Dalla panchina della fermata del bus di fronte al Duomo, luogo quotidiano e privilegiato,  si misurano i ritmi moderni sull'immobilità dell'antica cattedrale: occorre lasciare per un momento le distanze della vita odierna per individuare la misura del tempo eterno attraverso il linguaggio romanico.

venerdì 10 gennaio 2014

L'inizio e la fine

Se si ha voglia di notarle, se fa piacere, se aiuta, nella vita ci sono tanti piccoli "segni" che giungono inaspettati e non voluti.
Cose che "capitano" e che, viste a posteriori, si possono interpretare come "segni"del destino che aiutano a capire, a collegare, ad aprire e a chiudere le vicende della vita, i periodi belli o meno... le nuove strade che si srotolano davanti ai nostri piedi e serrande che si chiudono pesanti, dietro o davanti a noi.
Sono "accidenti", si possono chiamare "casi", si possono considerare coincidenze. 
Non so come interpretarli: so che da sempre ci sono e mi piace notarli a posteriori.
Nella mia vita si è chiuso un lungo periodo -la vita matrimoniale- e per un puro caso, appunto, si è chiuso dopo un breve soggiorno a Treviso, che per me è, da sempre, la città di Tomaso Barisini detto da Modena (1325\66- 1368\78)
Questo lungo periodo iniziò più di 21 anni fa: poche settimane dopo la restituzione alla mia città di un importante affresco dello stesso pittore, mio antico concittadino.
La Madonna del Carmelo o del latte, conservato nella chiesa di San Biagio, ripulito da una ridipintura ottocentesca, mi aveva incantato al punto da trasformare quell'"antica novità" nel ricordo del matrimonio (la così-detta bomboniera) e nell'immagine che, come da tradizione, campeggia sul letto matrimoniale.
Tomaso da Modena, è divenuto d'allora tra i miei pittori più amati, soprattutto come pittore di Madonne.

Le Madonne di Tomaso continuano la lezione di Giotto: sono donne che hanno a che fare con la vita, sono materiali, hanno volti ben torniti e corpi robusti, tengono in braccio bambini vivaci, cicciotti, intenti ad azioni riconoscibili.
Al tempo stesso però, il pittore del Trecento modenese, riesce a mantenere la  bellezza ideale delle icone bizantine: negli eleganti occhi a mandorla, nelle lunghe dita affusolate, nella collocazione del seno -incoerente con la anatomia e pur turgido di latte- nella pesantezza degli abiti che tentano -invano- di negare le forme, il corpo, la sostanza della donna Maria.

La poesia di Tomaso sta nel compromesso tra l'umanità di Maria e la sua idea astratta di "piena di grazia", "prescelta tra le donne", e quindi la rappresentazione mariana si colloca tra la pittura dell'immedesimazione e quella dell'ascesi e purificazione. 
Qui Tomaso mostra l'ideale perfetto di donna che attraverso l'idealizzazione della Madre di Dio, riesce ad intonare un canto d'amore ad una donna vera e riconoscibile.
Cosicché, quella mandorla iridescente, così arcaica, rigida, incoerente, diviene un omaggio alla bellezza attraverso i preziosi, sgargianti colori.
Questa è la cifra stilistico-iconografica che caratterizza gli ultimi anni del pittore- l'affresco è datato alla fine della vita del pittore, addirittura nel 1370- 

Le prime rappresentazioni mariane di Tomaso risentono dell'opera di Vitale da Bologna, ma ci comunicano un'originale capacità di trasmettere l'umanità che stupisce anche l'osservatore contemporaneo.

In particolare nell'altarolo della Pinacoteca Nazionale di Bologna presenta un'iconografia davvero rara: la rappresentazione di Maria è triplicata occupando l'intera fascia centrale.
Nel timpano, l'Ultima Cena è sormontata da Cristo benedicente e dall'Annunciazione, mentre  nella fascia inferiore le quattro sante, Anastasia, Lucia, Agnese e Caterina, ci fanno pensare ad una destinazione femminile molto colta - un monastero?-
 La triplice rappresentazione di Maria col bambino, purtroppo mancante di parte della superficie pittorica, è spartita da arcate gotiche trilobate poggianti su eleganti colonnine tortili. 
Maria in Maestà, quindi in trono, è "contraddetta" dal fatto che questa non sia stante, ma in azione: le sue attività  sarebbero più adatte ad un'altra iconografia molto presente all'epoca, la "Madonna dell'umiltà" (Maria seduta su un cuscino appoggiato a terra).
La Maestà è però coerente al fondo oro che eterna il concetto della maternità e lo estende ai cristiani, che sono figli di Dio, come Cristo, per mezzo del sacramento del battesimo.
Quindi che senso hanno quelle mansioni o azioni, così quotidiane, poco eterne o astratte, e quale senso acquista la triplicazione, se il fondo d'oro ha la funzione di togliere le dimensioni terrene del tempo e dello spazio?

La rappresentazione centrale è quella della Galaktotropousa cioè colei che nutre col latte, un'iconografia bizantina che qui  -come nel più tardo affresco di Modena- è mantenuta rigorosamente -anche nel gesto tenero del bambino e lo sguardo serio di Maria- L'atteggiamento della Madre pare indurre il fedele a pensare alla futura passione del Figlio di Dio.

A sinistra Maria non ha il  Bambino ma il Libro, Il codex aperto non ha un senso proprio quanto invece simbolico: è la promessa, l'alleanza di Dio che si realizza in Maria. La Parola  che, incarnandosi, darà il via alla "nuova ed eterna alleanza". che avrà pieno compimento con la morte e risurrezione di Cristo. Maria non legge, Maria è il mezzo attraverso la quale le Scritture si rivelano. 

A destra Maria col Bambino confeziona una camicia. Come nella Glaktotrophousa, in questa rappresentazione, scatta più efficacemente l'immedesimazione della fedele, L'abitino rimanda all'episodio della passione narrato dai Vangeli in cui i soldati non vollero dividersi la veste di Cristo.

Ecco dunque che la scelta di triplicare la rappresentazione ha la funzione di meditare e riflettere sull'incarnazione e la passione di Cristo e al tempo stesso sull'atteggiamento di immedesimazione improntato alla meditazione continua, anche nelle occupazioni quotidiane.

Sarebbe azzardato, ma suggestivo, trovare un legame con la Trinità che tuttavia non mi pare di poter vedere completamente. 





venerdì 15 novembre 2013

Rinunciare alla divisa: san Martino

Quando si conoscono le storie dei santi, accade di sentire episodi simili attribuiti a diversi nomi e si rimane stupiti e confusi. In effetti lo scopo della narrazione delle antiche vicende, che portarono semplici uomini a diventare santi, è molto diversa dalla conoscenza cronachistica che caratterizza il nostro modo di apprendere la vita delle persone importanti oggi.
L'antica narrazione della conquista della santità era un insieme di episodi simbolici, che vanno oltre il fatto di storia per divenire strumenti che dovevano ispirare il cristiano a unirsi alla sequela di Cristo, al fine di  fissare gli atti meritevoli nella mente del fedele: si raccontavano episodi comprensibili e riproducibili anche da persone non istruite.
Simone Martini, San Martino dona il mantello
ad un povero, 
Oggi tali atti corrono il rischio di essere banalizzati o non compresi perché ci si ferma a coglierli con la mentalità di oggi, senza inserirli nella consuetudine aneddotica tipica della letteratura antica.
Nella storia di San Martino e di San Francesco, ad esempio, troviamo lo stesso episodio del dono del mantello.
Le realtà profondamente diverse, in cui è inserito un simile episodio, darebbero luogo a "lezioni di vita cristiana" differenti mentre oggi ci appare prevalere  in entrambe l'esempio di generosità materiale.
Martino fu un militare romano del IV secolo -non battezzato, ma educato al cristianesimo- che incontrò un mendicante durante una perlustrazione notturna del suo accampamento. In questa situazione, di uomo forte di fronte a uomo debole, Martino lascia il suo privilegio e scende al livello del mendicante: compromettendo la sua uniforme taglia il suo mantello per permettere la povero di ripararsi dal freddo.
L'atto di Martino non consiste solo nella generosità di privarsi di un suo bene, ma ha un insegnamento specifico che doveva essere ben chiaro ai contemporanei. Il militare rinunciò al suo grado di cui l'uniforme costituisce non solo simbolo, ma la sostanza. La manomissione della divisa era considerata ( ed ancora oggi è così) una grave infrazione sanzionata proprio perchè è uniforme -non abito- e dichiarava una condizione che differisce dalla  civile per incarico dell'Impero di Roma.
Il gesto di Martino è la traduzione -nel linguaggio popolare- del capitolo 10, 29-31 del vangelo di Marco.
Gesù gli rispose: «In verità vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia e a causa del vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna. E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi».
La vicenda prosegue con l'apparizione di Cristo, in sogno, coperto del mezzo mantello che aveva rivestito il medicante. In premio Cristo consegna il mantello integro all'ufficiale che si risveglia con la sua uniforme intatta.
Ecco perché Martino è rappresentato nella Basilica di San Apollinare Nuovo a Ravenna con un importante mantello porpora (colore imperiale) che lo differenzia da tutti gli altri santi. Il colore oro dello sfondo ci dice con certezza che non è la rappresentazione dell'uomo martino, della sua storia ma della sua condizione di santo nella gloria del Paradiso.
La presenza di Martino alla testa del corteo dei Santi Martiri non appartiene ala decorazione originaria. Infatti questo edificio è nato nel 505 come cappella palatina commissionata da Teodorico e consacrata al culto ariano. Quando alla metà del VI secolo la chiesa venne riaperta e "convertita" al culto cristiano fu intitolata proprio a Martino, santo vescovo di Tours che si era distinto per la lotta contro gli ariani.
Martino fu uno dei primi santi che non ha subì il martirio e sia alla testa di un corteo di Martiri (tra i quali si distingue Lorenzo con la tunica oro)

L'episodio del dono del mantello nella storia di Francesco (figlio di un mercante, vissuto alla soglia del XIII secolo) è raccontato nella  Legenda maior ed è una sorta di premonizione alla scelta definitiva del figlio del ricco mercante, che si spoglierà delle ricchezze del mondo, per abbracciare una vita povera di beni ma completamente dedita a Cristo e ai fratelli. 
Francesco dona il suo mantello non ad un mendicante, ma ad "un cavaliere nobile ma povero e mal vestito" (capitolo 1,2) . In questo caso l'abito ricco di Francesco è un dono di dignità da parte di un appartenente al ceto inferiore ad uno del ceto sociale superiore, è un affermare ruoli e ambiti sociali definiti che evidenziano la scelta rivoluzionaria che  Francesco avrebbe iniziato poco dopo. La questione sociale e la nascente classe borghese erano temi importanti. Il sovvertimento di Francesco attualizza e rende comprensibile ai suoi contemporanei il brano del vangelo di Marco 10, 43-45:
Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore,  e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
L'atto del donare il mantello al nobile cavaliere diviene chiaro ed esplicito nella sua vita e missione: Francesco abbatte ogni barriera sociale  ed economica per cui il consacrato a Dio esce dal territorio sacro del monastero ( che non doveva nemmeno esistere secondo la volontà del Poverello d'Assisi", della chiesa, e va incontro all'ultimo. Questa rivoluzione è ben esemplificata dal nuovo linguaggio religioso che è il linguaggio del popolo: ciò che porta a Dio non è più delimitato da barriere culturali o spazio-materiali, ma diviene accessibile, anzi "portato"  a chiunque nel suo mondo. 
Tutto questo è reso ancor'oggi evidente dalla rivoluzione delle immagini che subiranno quella conversione umanizzata del linguaggio predicato. Le nuove immagini parlano al cuore, non al cervello, linguaggio nel quale immedesimarsi con la esperienza umana e non col sapere religioso astratto bizantino. Le immagini religiose del Cristus Patiens o di Maria, madre di Gesù, aumentate a dismisura con la predicazione francescana, sorgono dalla spogliazione del mantello della divisione sociale, economica e culturale per parlare il linguaggio universale dell'esperienza del dolore e della tenerezza materna.





domenica 11 agosto 2013

Cenerentola alla Galleria Estense. ( 3 e ultima parte)

Infine propongo la lettura di due opere della Galleria Estense attraverso la storia di Cenerentola per iflettere sulla funzione delle opere religiose nell'educazione delle fanciulle.

Educare sull'esempio della Vergine Maria

Giovanni Francesco Caroto (1480-1555) , Madonna che cuce, 1501, olio su tela, 48x39cm

Questa è la prima opera nota del giovane Caroto datata 1501. In essa la lezione del suo maestro Liberale da Verona, si uniscono alle caratteristiche della pittura del Mantegna.
La plasticità scultorea di Caroto è alleviata dal motivo insistente nelle pieghe degli abiti che denunciano un decorativismo grafico, poco incline a mostrare le forme anatomiche ma tesa ad ingentilire la tridimensionalità dei corpi attraverso motivi di  simmetria (busto) o del ritmo (intorno alla vita).
Il gesto del bambino, in equilibrio sulle ginocchia delle madre, ci rimanda al ricco lessico dei gesti di tenerezza, mentre la figura troppo schiacciata di san Giovannino è tradizionalmente ripresa con la crocetta e il cartiglio, che dichiara il riconoscimento dell’”agnello di Dio”. Anche l’iconografia di Maria che cuce è antica e molto amata proprio per la capacità d’immedesimazione delle donne che ravvisavano nell’attività della santa Vergine un’occupazione domestica famigliare.

Come Cenerentola: la Madonna è l'opposto di Eva: incorruttibile e lontana da propensioni all’amore carnale; è madre, come da ogni donna si pretende per riconoscerle un ruolo sociale di utilità. La madonna cuce, il che significa che simbolicamente essa tiene insieme i fili che reggono l'esistenza: a questo erano destinate le donne di alto lignaggio, tenute lontane dalla vita pubblica
Ma-donna, mia-donna deriva da domina cioè padrona; in amore domina diviene la “padrona del cuore” e Cenerentola è la padrona del cuore di un principe.
Una donna è vera ma-donna quando si dedica ai lavori donneschi e modella la propria esistenza sulla mitezza e sulla subordinazione. Cenerentola, recando su di sé tutti questi attributi, impersona il più efficace modello della donna sottomessa alla volontà e al potere maschile.
Approfondimento
Necessarie per procreare, le donne sono state piuttosto assimilate ad Eva o a Maria, a seconda che di loro si volesse evidenziare la pericolosità derivante dalla carnalità oppure la disposizione all’obbedienza. In entrambi i casi, comunque, l’obiettivo -sociale, culturale, religioso, politico- era il controllo delle donne. Tenute per secoli volutamente ignoranti (salvo qualche rudimento di istruzione delle classi nobiliari per accrescerne il valore di mercato), alle donne si chiedeva di assumere espressione e portamento dimesso perché in esso vi si leggesse con chiarezza come il modello di riferimento fosse la castità mariana.
Ma, essendo di natura fragili e instabili, come secondo i più la seduzione nell’Eden delle origini testimoniava, difficilmente le donne avrebbero saputo o potuto raggiungere l’elevatezza di Maria. Perché allora non trasformare la donna in una eterna penitente come il culto della Maddalena poteva garantire?
Questa figura, oscillando tra  la perdizione a cui si era abbandonata nel suo passato e la dedizione che l’aveva redenta, sintetizzava al meglio lo status in cui era bene che vivesse la donna. Inoltre, essendo il perdono e il riscatto elargizioni di pertinenza maschile, era consequenziale che ogni resistenza poteva essere facilmente fiaccata o annoverata tra le devianze da reprimere. E come in un gioco delle parti, la vita delle donne gravitava tra la proibizione e il controllo esercitati dalle istituzioni, tra la protezione e il possesso esercitati dalle famiglie. Senza considerare che il controllo e il possesso esercitati sul corpo erano causa di sofferenza per l’anima. In ogni caso, di Maddalena la visione canonica aveva taciuto la predilezione del Maestro nei suoi confronti proprio per la mente speculativa che questa donna possedeva. Maddalena nella leggenda era Eva e Maria, ma nella storia era soprattutto la donna che aveva dimostrato quanto la capacità di elevarsi o degradarsi fosse universale e non legata al genere.
Se, come qualcuno afferma, Eva rappresenta la donna che ama il potere da cui si lascia sedurre, allora a questo modello vanno ascritte le regine. Non c’è memoria che qualcuna di esse si sia data peso di riconoscere la condizione miseranda delle donne del proprio tempo e di migliorarla. La loro distanza dalla vita materiale poteva renderle buone amministratrici dello Stato ma non certo interpreti del malessere e della subordinazione sociale a cui le donne erano condannate. La sacralità che avvolgeva le loro persone talvolta le ha rese protagoniste di favole o emblemi di virtù ma mai veicoli dell’elargizione e del riconoscimento di diritti. Alle altre, alle donne comuni non toccava, né per sorte né per concessione, la sublimazione di quel male di vivere da cui erano afflitte. 

Educare alla vita matrimoniale come massima realizzazione

 Marco Meloni ( documentato dal 1498 al 1541), Pala Rangoni, 1490-99, olio su tela, 162,5x134.
Madonna con Bambino in trono tra san Girolamo (a sinistra), san Giovanni Battista (a destra) e i donatori Nicolò Rangoni e Bianca Bentivoglio.
L’identificazione dei committenti è descritta a chiare lettere nell’iscrizione affissa alla predella del trono su cui siede la Vergine: “Nicoleus iuncti Blancha-que coniugio” = Nicolò e Bianca congiunti in matrimonio. Dalla iscrizione si data l’opera prima del 1500, anno della morte di Nicolò Rangoni
Giunta alla Galleria dapprima nel 1901 in seguito al sequestro giudiziale ai danni dei marchesi Rangoni Macchiavelli accusati, poi assolti, del reato di clandestina esportazione di oggetti d’arte di grande pregio artistico e storico; l’opera venne poi acquistata definitivamente nel 1908.

La sacra conversazione è inserita sotto una architettura essenziale, austera, che inquadra i santi bloccandoli nella loro assorta immobilità, ma ne esalta i valori plastici potenti che la posa addolcisce.
Maria, eterea, si distacca per i colori freddi dai due santi col mantello rosso e con la testa equilibra lo sbilanciamento del bambino proteso verso il Battista
I donatori, in ginocchio, sembrano avere due funzioni del tutto diverse: Nicolò Rangoni riprende con la sua veste e la posa la solenne staticità del santo sopra di lui come a ripercorrerne i contorni senza imitarne la grandezza. Bianca Bentivoglio esce da quella fissità grazie al contrasto tra la posa del corpo e lo scarto del volto che si rivolge all’osservatore con una naturalezza che la fa sembrare unica, viva e vivace.

Come Cenerentola: lo scopo dell’educazione delle nobili giovani era il matrimonio. Se le figlie erano più d’una e non si disponeva della possibilità di fornirle di una dote ragguardevole, si preferiva mandarne qualcuna in convento. Il motivo del “declassamento” di Cenerentola (unica figlia di un padre vedovo) a favore delle sorellastre probabilmente designa il desiderio della matrigna di far contrarre un buon matrimonio alle sue figlie eliminando ogni possibile confronto o concorrenza con Cenerentola. Per ottenere ciò non dà una educazione adeguata alla sua figliastra in modo tale che non avrebbe saputo affrontare un debutto in società.
Altro segno del declassamento di Cenerentola da figlia a serva è la perdita del nome, sostituito da un soprannome. In generale questa abitudine è espressione di una visione umoristica o denigratoria di una persona e la definisce per una caratteristica individuale fisica o legata alle mansioni domestiche (ad es. Zezzolla in Basile, Cenerentola in Perrault e nei fratelli Grimm): nella fiaba il soprannome annulla “l’attributo sociale” di figlia e quindi il riconoscimento e il legame parentale con i genitori.





Cenerentola alla Galleria Estense. ( 2 parte)


Leggere alcune opere della Galleria Estense attraverso la storia di Cenerentola è stato un modo per analizzare usi, costumi tradizioni, scelte culturali, modalità educative, tra il Quattro e il Seicento, attraverso le fonti visive, ma anche un sottrarre la fiaba alle solite immagini che alimentano il sogno e la rosea immaginazione.
Dopo aver analizzato alcune "Cenerentole" proposte dalla letteratura e dalla storia propongo alcuni concetti chiave dell'educazione femminile.

Educare all'accettazione del destino e della Provvidenza

Pietro della Vecchia (1603-1678), Le tre parche con il teschio, 1625, olio su tela. (deposito)
L'iconografia di questa opera è dubbia, tanto che il dipinto è conosciuto anche con un titolo puramente descrittivo: Tre vecchie con il teschio.
Il pittore, Pietro della Vecchia proviene da Venezia dove si è formato.

Egli reinterpreta un misurato gusto, pieno di ironia, che ritrae il vero senza aggiungere il bello, rasentando spesso il grottesco, che era stata la cifra tematica di certa pittura veneta e di Bernardo Strozzi.
Dopo un proficuo viaggio a Roma, Pietro della Vecchia apprese e reinterpretò la luce “teatrale” dei dipinti del Caravaggio e dei caravaggeschi.
Le tre parche sono proposte in un primo piano impietoso, che ben coglie la deformazione dei volti delle tre donne mentre sono intente ad intrecciare le loro mani e ad unire gli indici come stessero giurando o sancendo un patto sopra un teschio. Contrariamente al solito, le tre “parche” non hanno gli attrezzi che servono a filare: nel dipinto è l'idea della morte appare molto più evidente rispetto alla rappresentazione della vita.
Tuttavia la scena non è del tutto drammatica infatti è ravvivata dalla luce morbida e dai colori caldi delle vesti, colori smorzati solo dalle tele grezze dei copricapi che, in questa foggia, erano obbligo per le serve.
Sicuramente la mancanza di una più precisa identificazione delle donne, il loro numero e la presenza del teschio non bastano ad identificarle come “parche”: i loro gesti potrebbero indicare la conta degli anni passati, quindi la fine della vita che si approssima, indicata anche dal teschio. Quest’ultimo potrebbe far pensare ad un memento mori ma solitamente questa iconografia non si accompagna a generiche figure femminili, bensì a sante penitenti o ad ha altri elementi -spesso di natura religiosa- che invitano alla meditazione.

Come Cenerentola.
La sorte è alla base della vicenda di Cenerentola, questo è il senso dell’accostamento della fiaba a questa tela.
La sorte determina una serie di eventi che vanno al di là delle forze e della volontà della fanciulla: la morte prematura della madre, l’avidità della matrigna e la superbia delle sorellastre. A tutto ciò Cenerentola si accosta docilmente e con piena umiltà, senza mai tentare di dirottare l’avverso destino. La sorte e la sottomissione sono ile due protagoniste della prima parte della fiaba e vogliono essere una guida all’educazione femminile, uno specchio in cui le fanciulle potevano paragonarsi.

Girolamo Sellari detto Da Carpi (1501-1556) Il Caso e la Pazienza, 1541, olio su tela.


Questo dipinto è pervenuto in due esemplari, uno dei quali si trova a Dresda, in quanto fu ceduto -assieme ai 100 dipinti più importanti della Collezione estense- ad Augusto III Grande Elettore di Sassonia e re di Polonia. Infatti nel 1753 il duca decise di privarsi di questo prezioso tesoro per rimpinguare le casse dello stato ducali dissanguate da anni di guerre.
Questo dipinto, insieme al successivo (La Pazienza), faceva parte della decorazione della Camera della Pazienza voluta dal duca Ercole II d’Este (signore di Ferrara dal 1534 al 1559), nel castello di Ferrara.
Le due figure allegoriche rappresentano l’Occasione e il Pentimento.
L’Occasione ha i piedi alati ed è in equilibrio sul globo posto pericolosamente sul ciglio di un burrone sotto al quale s’intravvede, lontano, un castello. I suoi capelli sono curiosamente senza peso, non ricadono all’indietro e sulle spalle, ma sventolano alti sul capo; nulla resta dietro alla mobile Occasione e nulla le impedisce di avanzare: in mano ha il rasoio per tagliare gli impedimenti.
Il confronto tra le figure che rappresentano l’Occasione e il Pentimento è reso bene dall’accostamento dei piedi e dei panneggi: il biondo ragazzo fatica a stare in equilibrio sulle punte dei piedi, ciò è testimoniato anche dal movimento delle sue vesti che sono corte e leggere e mosse come se stesse saltellando; la donna (ovvero il Pentimento) è interamente coperta da pesanti vesti che cadono molli fino a terra dove appoggiano saldamente i piedi, che si muovono nella direzione contraria a quella dell’Occasione, si appoggiano saldamente.
D’altra parte l’immagine si presta anche ad essere interpretata in maniera contraria in quanto la donna, che guarda da dietro l’Occasione (perduta), è il Pentimento del pavido che non ha avuto il coraggio o la capacità di cogliere e inseguire l’”occasione”.

Come Cenerentola L’occasione di conoscere il principe è colta al volo da Cenerentola che pare non curarsi del pericolo a cui poteva incorrere qualora, incontrando le sorellastre e la matrigna, fosse stata additata come serva “mascherata” da nobildonna; ciò l’avrebbe ricoperta di vergogna davanti a tutti per la propria superba sfrontatezza.
E’ proprio il coraggio, un po’ sventato, che rende  Cenerentola meritevole del “risarcimento” dalle ingiustizie che aveva pazientemente sopportato. Il tutto, nella fiaba, è reso possibile dalla magia della fata madrina -o di un altro elemento magico-. Nella realtà la fata evidenzia il legame della ragazza con la madre che, pur dopo la morte, resta comunque nume tutelare della figlia.

Educare alla sottomissione. 

Camillo Filippi(1500 – 1574), La Pazienza , 1545, olio su tela.
Il duca Ercole II d’Este considerava la Pazienza la virtù più importante, tanto gli era cara che la scelse come motto ispiratore e come motivo dominante nel progetto iconografico che fece capo al rinnovamento architettonico e ornamentale degli ambienti privati ubicati nella torre di Santa Caterina. La "camara" o "camaron della Pazienza" era lo spazio più prestigioso e rappresentativo del maniero dopo che l'incendio del febbraio 1554 aveva distrutto l'area residenziale in prossimità della torre di sud-est, o Marchesana. Nel marzo dello stesso anno, sotto la regia di Girolamo da Carpi, cominciò la riqualificazione di locali preesistenti tanto che già il 23 giugno Camillo Filippi venne pagato per "haver conzato il quadro della Pacientia" (a conferma della paternità già ipotizzata dalla critica per il dipinto oggi alla Galleria Estense).
L’allegoria è accompagnata dal motto “SUPERANDA OMNIS FORTUNA”: la pazienza è il modo migliore per avere la meglio sulle vicende della sorte.

La donna raffigurata appare sullo sfondo di una parete rocciosa, ha vesti colorate e abbondanti che tuttavia non la coprono interamente, infatti, il busto è nudo e il seno è coperto dalle mani incrociate. La lunga veste è aperta ad arte per fare vedere la gamba sinistra imprigionata da una grossa catena di ferro.
La posizione frontale e statica è coerente col viso sereno, ruotato verso sinistra. Lo sguardo è rivolto verso il basso, sulla catena che la imprigiona alla roccia. A fianco della donna sta un vaso, decorato con maschere scolpite, dal quale esce una goccia.
La Pazienza attende immobile che la goccia logori la catena restituendole la libertà.
  
Come Cenerentola: La pazienza, virtù fondamentale richiesta ad una fanciulla, è caratteristica principale della mite Cenerentola. In questo senso la fiaba diviene una sorta di mantra educativo che sostituisce o sostiene l’educazione alla remissività giustificata anche dai precetti religiosi.
L’esercizio prolungato della pazienza che porta Cenerentola a sopportare una condizione di inferiorità: a svolgere mansioni umili, a vedersi usurpare il posto di figlia privilegiata del padre, è risarcita attraverso la magia. Infatti, umanamente pare una condizione inaccettabile ma tollerabile se diviene paradigma educativo esemplare.
La pazienza, la sottomissione, la mitezza sono in duro contrasto con la madrina e le sorellastre che sono rappresentate come avide, interessate, impazienti e litigiose.

Educare ad essere bella

Annibale Carracci ( 1560-1609), Venere, 1591, olio su tela, ovale 110x130

Dal 1586 Palazzo dei Diamanti di Ferrara divenne residenza di Cesare d’Este, cugino e successore di Alfonso II che non aveva eredi diretti. Nel 1586, morto il cardinal Luigi d’Este -proprietario del palazzo, ma spesso assente da Ferrara- Cesare si trasferisce in questa residenza,  nella quale andò ad abitare con la moglie, Virginia de’ Medici (figlia di Cosimo I e di Camilla Martelli), e inizia un programma di decorazione.
Qui fu allestito il memorabile banchetto per le nozze di Cesare e Virginia che durò 8 giorni.
Le committenze per la decorazione del palazzo di Cesare furono moltissime e ben documentate: tra queste, giunsero a Ferrara, quattro tele di Ludovico, Agostino e Annibale Carracci che rappresentavano Plutone, Venere, Flora e Salaci; esse andarono a ornare i soffitti a cassettoni delle stanze private dell’appartamento di Virginia, presumibilmente la stanza del Poggiolo, in concomitanza con la nascita del terzo figlio Alfonso.
I quattro dipinti, assieme a molti altri -analoghi per forma e destinazione- vennero trasferiti a Modena in seguito alla perdita della città di Ferrara da parte dei duchi d’Este.
Venere, che seduta sulle nubi guarda il figlio Cupido, tiene nella mano destra la mela d’oro e hai suoi piedi ha due colombe che sono parte degli attributi che la identificano. Cupido ha in mano l’arco d’oro e, sulla schiena, s’intravvede la faretra.
Le colombe, appollaiate sul bordo con la sorprendente naturalezza caratteristica dell’accademia dei Carracci, introducono l’ardito scorcio della visione mitologica.
Dalle gambe al ginocchio, dalle cosce al busto, dal seno ai capelli ornati di fiori, Venere è nuda e seducente, viva, di carne e la sua divinità è tutta risolta dalla noncuranza con cui si esime dal coprirsi:  adagiata su una nube si mostra perfetta con il pomo, il premio che ne attesta la vittoria di bella tra le belle.
La nudità colloca Venere al di sopra dei ceti sociali (definiti dall’abito e dai gioielli) e la sua noncuranza probabilmente celebra il prestigio della nobile Virginia che, come la dea, aveva il piccolo figlio accanto.

Come Cenerentola: la bellezza e l’eleganza di Cenerentola conquistano il principe che rimane incantato dal suo aspetto e dalla naturale grazia con cui ballava. L’educazione delle ragazze nobili verteva sulla cura del comportamento in società, sulle lezioni di ballo e le regole della conversazione. L’adeguatezza dei modi, il frequentare i salotti giusti, l’essere belle e piacevoli erano premesse indispensabili per contrarre un matrimonio vantaggioso, fondamentale all’equilibrio economico-sociale-politico della nobiltà.

Educare alla verginità


Giovanni Busi, detto il Cariani (1480\85 1547), Ritratto di dama o Allegoria della Verginità, 1515-20, olio su tela, 89 x 65.

Questo dipinto è, per molti versi, un mistero ad iniziare dall’attribuzione incerta per lungo tempo (negli anni passati è stato attribuito a Giorgione e a Palma il Vecchio), ora la critica propende per ritenerlo di mano del veneto Cariani.
L’opera è di grande qualità; rappresenta un figura femminile ritratta fin sotto alla vita dietro ad un parapetto di marmo.
La stessa rappresentazione è ravvisata in tre copie, con poche variazioni, secondo il catalogo on line della Fondazione Zeri
    1.        identificata col numero scheda 39747 collocata presso il Museo di Belle Arti (Szépmüvészeti Múzeum) di Budapest


    2.        identificata col numero scheda 39748 di ubicazione sconosciuta,
     

    3.        identificata col numero scheda 39749 collocata nella galleria Estense


E’ evidente che l’immagine di Modena sia la più curata in quanto la giovane indossa un’elegante collana e un raffinato bracciale non presente nelle altre. Inoltre, da quanto ci appare nelle fotografie le altre immagini sono tagliate in basso e ci presentano solo la parte destra più alta del parapetto, senza la lettera V, presente nell’esemplare modenese.
In questa immagine risalta la plasticità della figura, il virtuosismo del rendere la morbidezza delle carni e la leggerezza dei preziosi tessuti, compresa la trasparenza del velo e la fredda rigidità del marmo. Il tutto è espresso da un sostanziale bicromismo che declina le sfumature del bianco e verde scuro appena arricchito dall’oro dei discreti monili.
Il dipinto ritrae una giovane e ricca donna il cui abbigliamento richiama la moda del Cinquecento veneto, in esso risaltano, abbondantissime, le maniche bianche come tutta la sopravveste che contrasta con la passamaneria verde scuro delle rifiniture apposte sulle cuciture del corpetto e della cinta chiusa sul davanti con un semplice fiocco.
L’ovale del volto è incorniciato dai capelli biondi, mossi in morbide onde e trattenuti dietro al capo, sulla destra appare un piccolo fiore tra i capelli.
La critica ha avanzato due ipotesi: l’una ravvisa in essa Violante, la figlia di Palma il Vecchio, bellissima donna che fu più volte ritratta dal Tiziano innamorato di lei; l’altra preferisce riconoscervi l’allegoria della Verginità.
Propenderei per questo secondo significato sia per le diverse copie che si conoscono e che non appartenenti a Tiziano o a Palma, sia per la reiterazione di attributi che rimandano alla virtù della verginità. Infatti la fanciulla indossa il cingolo (chiamato anche zona) o cinta virginale indicata tra l’indice e il medio della mano destra; uno smeraldo, cui si attribuiva il potere di cambiare colore in presenza di infedeltà; una perla, simbolo di purezza; l’anello nell’anulare della mano destra che Lomazzo nel suo “Trattato dell’arte della pittura” dice essere il punto da cui parte la vena del cuore; l’abito ricco e bianco e il fiore d’arancio dell’acconciatura che rimandano alla cerimonia sponsale.
Anche i gioielli che la donna raffigurata indossa rimandano simbolicamente all’amore e alla verginità: catena d’oro con una grande gemma verde (forse uno smeraldo di cui si è detto), con su incisa probabilmente la figura di Eros, e una perla pendente; un braccialetto in oro e smeraldi, l’anello all’anulare.
La gemma, peculiare di questa copia del dipinto, potrebbe riferirsi ad una gemma antica, come a quelle presenti nella Medagliere Estense. Su una di queste a forma ellittica (Museo Medagliere Estense inv. 406), risalente al II-III secolo d.C.,  è inciso un amorino con armi. Si tratta di un  diaspro verde e chiazze di colore rosso scuro chiamato diaspro sanguigno o eliotropio.
Il soggetto inciso alludeva alla forza dell’amore, concetto che veniva rafforzato dalla virtù propria dell’eliotropio che, secondo gli antichi romani, rendeva costanti anche le persone più inquiete.
  
Come Cenerentola La verginità era una caratteristica fondamentale per poter ambire ad un matrimonio importante. Cenerentola era assolutamente ingenua, sognatrice, inesperta della vita mondana, non possedeva abiti adeguati alla presentazione in pubblico, aveva piedi piccoli e proprio questi l’hanno resa unica nella prova della scarpa.

Se il dipinto rimanda, attraverso i simboli, alle regole di rappresentazione delle virtù femminili richieste nella società rinascimentale, la fiaba si affida a simboli meno espliciti ma ugualmente emblematici per evidenziare gli attributi virginali richiesti dalla tradizione ad una giovane donna che deve essere data in sposa. Gli attributi della Verginità, dopo il matrimonio, assumono il significato di fedeltà al marito.


Prima parte: http://artendmore.blogspot.it/2013/05/cenerentola-alla-galleria-estense-1.html
Terza parte: http://artendmore.blogspot.it/2013/08/cenerentola-alla-galleria-estense-3-e.html

giovedì 11 luglio 2013

Viaggiare nel tempo ... banalmente (1)

 Nel delirio degli esami ho scribacchiato queste note ispirata da un brano dell'ultimo libro di Arasse "Non si vede niente". Non si decidono amministratori in base alle vacanze, lo so bene, ma un nesso continuo a vedercelo.

L'uomo nomade preistorico viaggiava sulle tracce della sussistenza: per lui viaggiare era vivere.
Durante la lunga storia di Roma viaggiare significava combattere per aumentare o difendere i confini della "civiltà".
Nel Medioevo si viaggia verso i luoghi santi con la veste del pellegrino e, a volte , del crociato.
Nel Rinascimento, ai preesistenti motivi che valgono un viaggio si aggiunge il commercio e l'esplorazione.
Durante il corso dell'Ottocento, al nutrito gruppo di viaggiatori, si uniscono i pedanti studiosi. 
Oggi la parola viaggio equivale soprattutto alla vacanza che assume molte sfumature e caratteristiche ( vacanza culturale, sportiva, balneare, termale, ...)

Il ruolo del viaggio, negli ultimi decenni, è dunque cambiato moltissimo: nel secolo scorso solo supporre  che il viaggiatore potesse rilassarsi era una pura follia. 
 L'invenzione e il progresso dei mezzi di locomozione a motore, dal treno dall'automobile, dalla nave all'aereo, ha sovvertito l'idea di viaggio e ne ha ampliato moltissimo la possibilità, le distanze e le motivazioni diminuendo tempi di permanenza, di viaggio e i rischi.
In un passato non troppo remoto, uscire dalla città durante la calura estiva era una necessità sanitaria: il caldo e la minor disponibilità di acqua aumentava  il pericolo di diffusioni di malattie ed infezioni, favorite anche dalla densità abitativa e dalle carenti (o inesistenti) infrastrutture fognarie. Naturalmente solo i ricchi avevano la possibilità di spostarsi e allontanare il rischio di malattie alloggiando per alcuni mesi in "villa".  Questo significa villeggiatura: allontanarsi, anche solo per pochi chilometri, spesso in campagna o comunque in un contesto meno densamente abitato.
L'odierno binomio affari-vacanza-viaggio non è per nulla nuovo,  i latini avevano inventato due parole significative, che non ammettevano di essere vissute contemporaneamente: otium-negotium. L'agognato otium, il tempo dello spirito, indicava l'azione individuale compiuta nella meditata pace del silenzio che, se non era solitario, era condiviso tra pochi uomini che nutrivano la loro anima di studio e filosofia. A questo s'alterna il tempo degli affari umani (negotium) che presuppone la trattativa, la moltitudine, la confusione.
Oggi la duplice attività  otium-negotium si presenta diverso rispetto alle molte declinazioni che ha avuto nel corso della storia
Il fattore economico è insito nel viaggio e non costituisce più solo un possibile scopo di questo: viaggiare diventa in sé una questione economica, una fonte di reddito non a favore di chi compie "la fatica del viaggio" ma di chi ne organizza e cura le varie componenti.
Quindi il termine viaggio attualmente evoca, oltre all'idea di piacere e vacanza, anche l'idea di "affari economici" (senza nominare di chi siano questi affari), a prescindere dal motivo per cui il viaggiatore decide di partire.
Come in passato, il viaggio evidenzia lo status del viaggiatore, sia inteso come distinzione economica che culturale e questo essere marcatore di differenza sociale rimane tale se si intende portare il concetto di viaggio dal piano reale a quello metaforico.
Il viaggiatore "V.I.P." attraverso la meta, i mezzi di trasporto e la scelta dell'alloggio, così come attraverso gli accessori e l'abbigliamento, rimarca il suo status (nel senso di censo economico) che pretende essere esclusivo rispetto la massa e inclusivo rispetto ai suoi selezionati pari. Un alto prezzo permette la comodità assoluta nello spostamento, nessun tempo di attesa, nessuna noia di file, e l’accesso a mete esclusive, epurate da ogni visone o esperienza non consona al target e al prezzo pattuito. Non mancheranno pasti rassicuranti e curatissimi, divertimento abbondante, ogni comodità e servizi di cura e bellezza. Pagando ci si può dimenticare di essere parte dell'umanità e di essere sulla Terra. Dunque questa esperienza può essere fatta ovunque, purchè rientri nel personale concetto di esclusivo e rilassante o interessante; in fondo la differenza la fanno gli operatori del turismo (business)
Anche il "viaggio" metaforicamente inteso, quello che si fa con gli strumenti della cultura, ha i suoi livelli di status culturale: l'indipendenza e l'autonomia giocano un ruolo fondamentale: solo chi padroneggia criticamente i linguaggi è in grado di affrancarsi dalla proposta del viaggio preconfezionato e di esercitare una scelta critica tra i prodotti culturali proposti. Nel viaggio reale spesso funziona al contrario: la possibilità di investire, non di rado, significa poter usufruire di proposte preconfezionate che assicurano un confort, “ a prescindere”; il pacchetto viaggio permette di non usare la propria capacità di organizzare, di scegliere o di conoscere davvero la meta del viaggio ma di usufruire di “paradisi esclusivi…”:, oasi incontaminate ma in realtà non-luoghi improntati al piacere, svestiti di ogni “incontro reale”.
Ecco dunque che ricchi “viaggiatori reali” compiono l’artefatto e l’ingannevole esperienza dei meno colti “viaggiatori metaforici” ed entrambi ripiegano su prodotti che non interpellano la loro coscienza critica, si limitano ad assumere proposte preconfezionate, rassicuranti e prive di incontri problematici o soluzioni altre.
Se è vero quello che ho proposto, allora il “ricco ignorante” poco ha da “restituire” al paese democratico e, conoscendo il suo paradiso artificiale, è incurante del corso diversificato e complesso del resto del mondo.
Sempre nel paradosso banale della semplificazione, il potere dovrebbe di per sé essere amministrato da colui che ha saputo viaggiare modestamente, su strade meditate, conosciute e sperimentate che, se da una parte hanno prosciugato le poche sostanze economiche, dall’altra mantengono vivace il contatto critico e attento con la complessità reale.