Penso che in ognuno di noi ci sia un
ostinato bisogno di sentirsi vivi.
E non so se vale per tutti, ma il
bisogno di vita spesso è intrinsecamente connesso alla comunicazione
della vita e della vitalità.
Per “comunicazione della vita e della
vitalità” non intendo ora il trasmettere la vita nell'accezione
più alta e nobile dei genitori o della cura del medico o di
coloro che donano un organo o parte di sé per alleviare
sofferenze o salvare i giorni altrui che apparirebbero altrimenti perduti.
Non parlo quindi di vita fisica.
Parlo di vita del pensiero, del sorriso
cioè del senso della vita.
Ho sempre avuto la percezione che la
mia vita non potesse essere solitaria, fino a scoprire, non troppo
tempo fa, che la mia capacità intellettuale è inesorablmente legata
alla relazione.
Questa scoperta è stata piuttosto
dolorosa.
È doloroso scoprire la propria
inutilità pur nella unicità: la inutile solitudine.
Mi sento, in questo mondo una tessera,
una pedina, un frammento, solo una piccola trascurabile parte che
necessita del resto, e che da sola è inutile ed indecifrabile.
Tuttavia per le note vicende
professionali (il decennio di precariato) e personali ( la dislessia
e le conseguenze lentezze universitarie) non passa un solo giorno
senza che io constati che, mentre io necessito di quel tutto, il
tutto non necessita assolutamente di me.
Sono di troppo, fuori tempo,
sostituibile e anche evidentemente poco “preziosa”
Le vicissitudini professionali sottolineano che le scelte razionali e ben ponderate che ho fatto
(specializzarmi solo nella storia dell'arte che amavo e che mi pareva
fondamentale disciplina di studio in Italia) sono totalmente smentite
dalla follia del momento presente.
Le vicende personali mi hanno costretto
ad arrivare tardi al mondo del lavoro e senza tutte le competenze (le
lingue straniere ad esempio) che mi avrebbero aperto le strade
alternative ormai irrimediabilmente chiuse.
Però noto un'altra forma di
“repulsione” che è l'educazione ricevuta dai miei genitori.
Molto semplicemente i miei, che hanno costruito la loro famiglia dal
niente, hanno trasmesso ai loro figli quella che era la stata la loro
esperienza iniziata negli anni sessanta: chi fa il proprio dovere
prima o poi arriva ai risultati sperati, chi da nulla arriva ad avere
molto più del necessario significa che ha
rubato agli altri, i migliori presto o tardi avanzeranno sui mediocri
e sui peggiori...
Ecco, questi principi che erano veri ai tempi della mia educazione, ora
non lo sono più.
Non è questa la sede per indagare del
come e del perché, solo oggi questi ideali educativi -che hanno
smesso da tempo di essere solo miei atteggiamenti, ma sono divenuti costitutivi
del mio DNA- non servono, anzi sono di chiaro impedimento alla mia
realizzazione.
Penso allora che, forse, questo
pezzettino, questa tessera o frammento, che costituisce il mio io, sia difettoso, fallato,
da sostituire. Oh sì, si è usato, talvolta, in attesa di averne uno
conforme.
E' una constatazione dolorosa, che si
fa strada con molta chiarezza nel mio vissuto, ed è ormai divenuta convinzione.
Forse per questo amo tanto gli altri
pezzetti "fallati" e "difettosi" che talvolta incontro tra i banchi...
Leggo le tue confidenze e mi verrebbe voglia di parlarne insieme, magari intorno a un bel caffè nero bollente. Chissà che un giorno....
RispondiEliminaIntanto grazie per condividere così i tuoi pensieri
Sarebbe un vero piacere. E penso che le infinite opportuinità che questo nostro tempo ci riserva non sposterà di troppo la data di un nostro incontro. Anche io vorrei dirti qualcosa e, inoltre, chiederti un parere sull'iconografia di un dipinto di cui mi soo occupata e che mi è rimasto in testa (una testa affollata e desiderosa di ridurre gli ingombri)...
RispondiEliminaGrazie.
Rita
Vedo solo ora la tua risposta. Se hai bisogno puoi scrivermi a graago@ hotmail.be. Non che io sappia molto di iconografia, ma possiamo guardarci insieme...
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