martedì 28 maggio 2013

Fragilità bipartisan

"Sono tanto fragili"
A. Toulmouche, Vanità
Non c'è persona che abbia frequentato il mondo della scuola superiore, anche solo saltuariamente, e che non abbia dovuto assentire a questa affermazione.
E' vero, sono fragili gli adolescenti: è un dato di fatto, ma lo sono solo oggi?
Sono fragili solo loro? Come sempre, la domanda vera è: perchè, da dove viene questa fragilità? 
Ogni anno riconosco sempre di più i volti dell'insicurezza, la incapacità di mettersi alla prova e di affrontare la delusione, l'insuccesso e la difficoltà.
Mi chiedo però se quello che io percepisco un crescendo, non sia in realtà, solo un mio affinamento, un farci caso con maggiori mezzi di paragone. Non sono certa del fatto che questi casi di angosciante terrore nell'affrontare la prova non debbano essere messi sulla bilancia con i moltissimi "eroismi" degli studenti che quotidianamente ci sfiorano senza toccarci perchè si svolgono al confine con la scuola.
Non ne sono certa, ma mi sento di mettere sul piatto della bilancia anche molti atti di coraggio e abnegazione di chi trova nella scuola un luogo di socializzazione, un edificio sicuro (!), un luogo di incontro con gli adulti, oltre a quello che la scuola è. Sento che sia il caso di sottolineare come spesso i ragazzi siano eccezionalmente coraggiosi e lo abbiano dimostrato proprio a scuola .
In effetti mi sento io fragile a ricordare le mie "bimbe" dello scorso anno,  lasciare al mattino presto la distruzione del terremoto e, ordinate, puntuali, belle come sempre, ostentando una serenità che non era nel cuore, affrontare l'esame di terza del professionale (senza nessuno sconto e decurtazione). Ricordo come hanno sorriso a me e al mio vestito botticelliano, come hanno lavorato assieme alle 3 terze del professionale maschile, nella stessa palestra -quella stessa che avrebbero dichiarato inagibile il giorno dopo- nessun panico, nessun isterismo, solo concentrazione e la voglia di farcela... mentre io sarei solo scappata...
Ricordo, negli anni passati e recenti, le tante ragazze straniere arrivate da poco in Italia: ne ricordo i nomi, le storie e i loro occhi, in cui non ho letto la fragilità ma, sotto una prima e superficiale paura, la determinazione di chi aveva una possibilità. E ricordo le tutor, ugualmente straniere che le accoglievano con l'esperienza di chi c'è già passato, con la sicurezza di chi si è ormai impratichita!
Sulla bilancia vorrei metterci anche le tante studentesse che erano piene di rabbia sopra le sanguinanti ferite; quelle che attraversavano giorni complicati da malattie famigliari, piegate da lutti o massacrate da problemi il cui peso mi pare, anche oggi, insostenibile. E invece ci sono saltate fuori con una dignità straordinaria facendomi sentire, io già adulta , prof e madre, una privilegiata, fragile e inutile.
Davvero la mia bilancia dell'esperienza non pende dalla parte delle fragilità, pende vistosamente dalla parte del coraggio. 
Vedo invece molta insicurezza e poca preparazione a gestire la moltitudine della vita che ci passa davanti, in me stessa e , più in generale, in noi docenti.
Spesso schizofrenici e insicuri, valutiamo le persone e non le prestazioni, influenzati da altro che non sia la verifica di competenze, conoscenze e abilità... Ho partecipato a scrutini in cui entrava nella voci delle valutazione, la mamma assillante o il cognato morto tempo prima, o il padre che strillava anche ai colloqui...per non parlare dei genitori colleghi...
Siamo troppo spesso banderuole che cambiano parere in base alla valutazione di una collega più carismatica, a come la pensa la maggioranza e a paragoni  tra studenti e storie scolastiche diverse che sono sempre inopportuni e stupidi...

Di fronte alla  vulnerabilità dei nostri atteggiamenti come devono sentirsi i ragazzi che si affidano a noi come figure esperte e super partes? Dove riporre le loro fragilità, insite nella loro fase di crescita, se davanti hanno l'esempio vivente della più fragile precarietà?

Lungi dall'essere una critica agli insegnanti tout court questa è una critica prima di tutto a me che, precaria di mestiere, lascio trapelare la mia ormai fragilità lavorativa da ogni pertugio e, lasciata ogni speranza di una condizione più grata, mi lascio andare ad ogni insofferenza per quella categoria così amata che, ahimè non mi fa sua! ;)

giovedì 23 maggio 2013

Cenerentola alla Galleria Estense. ( 1 parte)

Leggere alcune opere della Galleria Estense attraverso la storia di Cenerentola è stato un modo per analizzare usi, costumi tradizioni, scelte culturali, modalità educative, tra il Quattro e il Seicento, attraverso le fonti visive, ma anche un sottrarre la fiaba alle solite immagini che alimentano il sogno e la rosea immaginazione.

Le “Cenerentole dipinte” e il valore intrinseco delle altre opere conservate alla Galleria costituiscono un arricchimento culturale per capire meglio ciò che la fiaba oggi dice in modo implicito, cioè per far emergere quei concetti che erano conosciuti alle destinatarie della fiaba: le donne in età da marito contemporanee di Basile, Perrault e Grimm.
Modelli culturali, sociali, educativi e usanze di un tempo costituiscono l’origine degli stereotipi di genere che ancora troviamo nella società odierna: questi impediscono la parità di genere e la libera espressione di ciascuno.
Contestualizzando la favola di Cenerentola, attraverso i dipinti, utilizzati come fonte, abbiamo inteso leggere la fiaba e la cultura che l’ha prodotta.

Apollonio di Giovanni (1415-17-1465), Storia di Griselda, metà del XV sec., tempera su tavola, 38x165.



Questa opera non è nata per restare appesa sulla parete ma è, come svelano le sue proporzioni allungate, la parte frontale di un cassone nuziale: un oggetto d’arredo, che accompagnava la ricca sposa nella casa del marito, colmo della parte di dote tessile: abiti, lenzuola, tovaglie …
I cassoni erano gli armadi del tempo e arredavano le stanze private, custodendo ogni genere di accessorio.
Ogg etti simili a questa preziosa tavola dipinta, con un simile tema e -probabilmente- lo stesso autore, sono conservati al Museo Correr di Venezia.
Questo è giunto a Modena all’inizio dell’Ottocento grazie al legato di Tommaso degli Obizzi del Catajo (PD).
Qui è rappresentata una parte della novella di Griselda: l’ultima delle cento storie narrate nel Decameron di Boccaccio.
Gualtieri di Saluzzo è un gentiluomo ricco e superbo che, incoraggiato dagli amici (prima scena a sinistra), si risolve di prendere moglie.
Così sposa Griselda, una donna poverissima incontrata per caso (scena centrale).
La loro unione è contraddistinta dal carattere mite e remissivo di Griselda che mai si ribella agli inganni e alle angherie sempre più umilianti del marito; questi, questo dopo averla maltrattata in tutti i modi, la manda via, per sposare un’altra donna; Griselda se ne va restituendo l’anello nuziale e ogni altra cosa perché, come ricorda al marito, lei non aveva nulla quando venne ad abitare con lui (ultima scena a destra).
La narrazione dipinta finisce qui ed è particolarmente significativo questo stralcio drammatico, di una storia, che presa nella su interezza, è a lieto fine: sul cassone, che accompagnava la ragazza nella casa del marito, era illustrato un monito severo che non condanna l’ingiusto comportamento del marito ma mette in risalto la sottomissione assoluta della moglie, fino al suo allontanamento ingiustificato.
La forma della tavola, ben si conforma alla divisione del racconto in tre parti: le due laterali sono inquadrate tra due edifici, mentre la storia al centro lascia lo spazio ad un panorama più ampio. Quest’ultima si espande sullo sfondo con una scena di caccia che completa la descrizione della condizione di prestigio sociale di Gualtieri già evidenziata dalle vesti ricche e dorate.
La numerosa corte, la ricchezza d’abbigliamento, le cavalcature equipaggiate con finimenti dorati, forniscono un evidente contrasto con l’umile Griselda che in entrambi gli episodi è a piedi, è sola, posta in direzione contraria rispetto alla folla.
La capacità narrativa è brillante, efficace, quasi aneddottica. Pur mantenendo la cura dei particolari, tipica del movimento del Gotico internazionale, Apollonio di Giovanni esprime una verve narrativa efficace anche nello sguardo d’insieme -che si coglie prontamente già ad una certa distanza- riuscendo a equilibrare  pieni e vuoti, cromie –soprattutto i rossi e l’oro- che imprimono un ritmo già, di per sé, narrativo.
Da vicino, la concentrazione minuta e preziosa che cesella particolari ricercati e naturali, dona alla tavola la preziosità di una miniatura.

Come Cenerentola: Griselda è una sorta di Cenerentola, ma la sua è una storia con accenti più duri e meno fiabeschi perché rappresenta in forma più realistica (com’è lo stile di Boccaccio) una società governata da valori, costumi e stereotipi sociali legati ad un modello patriarcale e lontano da ogni intento rivoluzionario.
Nella novella, come nella fiaba, si evidenziano le differenze sociali e di genere che sono dure a morire, come dimostra il contesto storico in cui nasce la fiaba, ben più tardo rispetto al Decameron. Nella durezza del reale, infatti, non vi è alcuna magia capace di mitigare le condizioni della donna, ad essa si fa credere che magica è la sottomissione e la docilità. Qualche volta può esserlo anche la fuga nella fantasia del sogno.

Approfondimento
Gualtieri, marchese di Saluzzo, sotto la pressione degli amici e dei sudditi sceglie come moglie una giovane di nome Griselda, che è guardiana di pecore.
In poco tempo Griselda, dolce di carattere e gentile d’animo, vince i pregiudizi legati alla sua estrazione sociale. Consumate le nozze,  rimane incinta e dà alla luce una bambina. Crudeltà e desiderio di prevaricazione portano Gualtieri a sottoporre Griselda ad una serie di durissime prove. Dapprima le racconta che il popolo critica la sua appartenenza popolare e poi aggiunge che anche la bambina è mal vista in quanto figlia di una popolana.
La giovane mostra saggezza e forza d'animo di fronte a tali affermazioni, atteggiamento che Griselda mantiene anche quando Gualtieri manda un parente a portarle via la bambina che, le viene detto, sarà messa a morte. Griselda non fa trapelare alcuna inquietudine e sopporta con fierezza ed orgoglio la propria sorte.
Lo stesso meccanismo perverso si ripete quando Griselda partorisce un maschietto. Infatti, pur essendo l’erede desiderato, Gualtieri con lo stesso pretesto fa portare via anche il secondogenito e lo dà per morto. In realtà si tratta di un inganno in quanto i due bambini sono stati affidati alle cure e all’educazione di un parente di Bologna.
Non ancora soddisfatto, il marchese ripudia la moglie e le annuncia l’imminente matrimonio con una donna socialmente degna di lui perciò le ordina di tornarsene da dove è venuta, di spogliarsi perfino degli abiti che indossa.
Griselda con fermezza e dignità rammenta al marito di aver considerato come sua unica dote il proprio corpo e che quindi non le sarebbe stato doloroso separarsi dalle cose che lui le ha consentito di usare. Una sola cosa riteneva indispensabile in quel momento: una camicia con cui coprirsi, visto che non aveva più la verginità posseduta all’ingresso in quella casa. Ottenuto ciò, Griselda lascia la casa di Gualtieri.
Il marchese, però, lungi dal sentirsi appagato dai tormenti e dalle umiliazioni che ha  inflitto alla moglie, richiama i due figli da Bologna e fa credere a tutti che la figlia dodicenne era la sua futura sposa. Inoltre ordina a Griselda di essere serva della futura seconda moglie e di preparare tutto l’occorrente per le nozze.
Ancora una volta Griselda mostra fermezza, magnanimità e mansuetudine di fronte all’arroganza del potere ostentata dal marito. 
Gualtieri, a questo punto, commosso dalla fierezza della moglie, le rivela la verità: i figli non sono mai stati uccisi e sono lì davanti a lei; inoltre, dopo aver confessato che il suo comportamento è stato dettato dalla paura di sposare una donna che non gli si addicesse, chiede a Griselda di tornare a vivere a corte e di accoglierlo come marito.
Follia? Crudeltà? Spregiudicatezza? Dominio? Quale ragione spinge Gualtieri a quella cocciuta volontà di umiliare e prevaricare?
È lo stesso Gualtieri che lo confessa: la condizione di paura crea in lui le condizioni per il dispiegarsi di un desiderio violento, irrazionale e incontrollabile di dominio assoluto di ciò che teme. E in questa novella ad essere temuta è la donna.

Ludovico Carracci (1555-1619), Laura Dianti, olio su tela


Laura Dianti è figlia di un berrettaio amata dal duca Alfonso I d'Este.
Questi, dopo la morte della seconda moglie Lucrezia Borgia avvenuta nel 1519, non volle risposarsi, ma -come scrisse L. A. Muratori - "mise gli occhi sopra una giovinetta, nata da povero e basso artefice, ma dotata di rare doti sia di animo che di corpo...". Nel 1520, quando iniziò la relazione, Laura Dianti doveva avere circa vent'anni ( Alfonso 43).
Il primo scritto che ci documenta il rapporto tra i due è datato 4 ottobre 1524, e parla di una donazione alla giovane donna.
Laura abitò al palazzina della Rosa, che il duca Alfonso, secondo il Muratori, le fece appositamente costruire. Dalla relazione, durata 13 anni, nacquero due figli, Alfonso nel 1527 e Alfonsino nel 1530, che il duca si preoccupò di legittimare espressamente nel testamento del 1533.
Non è dato sapere se i due si siano legati in matrimonio segreto perchè non fu ritrovato alcun documento, quel che sappiamo è che Laura si firmava Laura Eustochia d’Este o Laura Estense.
La mancanza del riconoscimento dell’unione da parte del papa (e quindi della legittimità dei  discendenti) fu il motivo per cui gli Estensi furono costretti dal papa a lasciare e dovettero trasferirsi a Modena.
Di Laura esiste un ritratto di Tiziano -citato anche da Vasari- conservato nella Collezione Kisters a Kreuzlingen (Germania). Da questo furono tratte almeno 5 copie fra cui quella conservata a Ferrara e questa, della Galleria Estense, attribuita a Ludovico Carracci.
La rappresentazione di Laura è del tutto simile a quella di una duchessa per il ricco abito, la sontuosa acconciatura e per essere accompagnata da un paggetto nero, anch’esso riccamente vestito.

Come Cenerentola: Laura fu una vera e propria Cenerentola scelta e amata dal Duca Estense nonostante la differenza di classe sociale e di età. Il loro fu un amore clandestino, tanto che la leggenda racconta che Alfonso raggiungeva la palazzina della Rosa attraverso un passaggio segreto. Non nella fiaba, ma nella realtà questo principe ha elevato la sua Cenerentola facendola ritrarre nel fiore della maturità e con abiti che ne nobilitano l'aspetto; inoltre, assegnandole un paggetto nero, l’ha resa parte di uno stato sociale che non aveva, ma che di fatto poteva voler dire che non tutti i tratti nobiliari provengono dal censo e dal casato.
Ma le fiabe hanno vita lunga se rimangono fiabe: nella realtà alla morte del duca, questa Cenerentola, amata e nobilitata nel ritratto, è tornata nell’ombra dell’anonimato e su di lei è calato il silenzio della Storia e della società.
Frans Pourbus il giovane (1569-1622), Infanta Anna di Spagna, 1602, olio su tela, 56x42

La donna qui ritratta non è univocamente riconosciuto come Anna, figlia di Filippo III re di Spagna e moglie di Luigi XIII di Francia, alcuni riconoscono in questa giovane Cristina di Savoia o Elisabetta di Francia
Il dipinto è chiaramente celebrativo, è del tipo che veniva commissionato da regine e imperatrici perché fosse inviato alle corti alleate e presso famigliari. Questi dipinti hanno caratteri propri come l’esibizione di ricchezze esclusive che si manifestano soprattutto negli abiti e negli accessori. In questo caso è evidente l’abito in pesante broccato d’oro con moltissime perle lungo tutte le cuciture del corpetto, molto aderente e che termina sull’ampia gonna con una profonda punta sul bacino. Le maniche sono caratterizzate da un triplice strato: la camicia sotto, la manica con i tagli e le soprammaniche aperte sul davanti. Preziosissimo il collo che fa corpo unico con la scollatura in quanto entrambi sono caratterizzati da diversi strati di pizzi e batista inamidati, ripresi nei polsini delle maniche.

E’ davvero difficile capire dove iniziano i gioielli e finisce il vestito perché, come si è detto, l’abito è basato sulla pesantezza dell’oro (del broccato) e delle perle in contrasto con la leggera abbondanza dei pizzi.
Il girocollo di perle è ripreso da un’altra collana, più lunga e posta sotto il collo di pizzo, trattenuta tra le dita che accarezzano una delle tre grosse perle a goccia che ornano la grande e preziosa croce; le gocce perlacee riprendono le due uguali che pendono dagli orecchini.
I capelli biondi arricciati incorniciano un viso roseo rotondo e ancora infantile ornati solo da rosette in tessuto di raso rosso che richiamano quella nella scollatura.

Come Cenerentola.
Il risalto che ha l’abito nella fiaba di Cenerentola, richiama il legame con questo dipinto di cui proprio l’abito sembra il protagonista. Di fatto l’abbigliamento di Cenerentola, di pertinenza di un ceto esclusivo, le consente di essere presentata nella società adulta. Ma come in tutte le fiabe, anche qui è presentato un modello educativo e quindi l’abito riveste un significato più complesso e simbolico: rende Cenerentola degna di “riscuotere” il premio che si deve a chi è stato virtuoso e di godere del risarcimento per i soprusi sopportati con mite sottomissione. Il premio di questa fiaba è il matrimonio con un principe e poco importa se il principe è soltanto colui che possiede il cuore di Cenerentola o se è di un antico lignaggio a cui può innalzare anche l’umile fanciulla.
Dubbi e ambiguità sono propri delle fiabe, non della Storia che documenta come i matrimoni avvenissero tra pari e fossero frutto di interessi politici o economici dai quali raramente nasceva una convivenza felice.

Il matrimonio aveva come finalità la procreazione ma la storia di Cenerentola non ne fa mai menzione concludendo semplicemente che i due “vissero felici e contenti”. Proprio questo, allora, deve indurre a pensare come la fiaba abbia “diseducato” generazioni di donne consegnandole a sogni e illusioni che nella realtà quasi mai hanno trovato conferma.