domenica 30 settembre 2012

la scheda dell'opera

Ogni prof ha le sue manie che, più che vizi, sono modi di conoscere o trattenere, necessari punti di vista e di riferimento.
Io ho il vizio della scheda dell'opera.
Lo so che è cosa noiosa. Mi rendo conto anche che, io stessa, nel presentare un'opera non seguo questa scaletta, in maniera rigida, se non con sforzi che evito di fare quasi sempre.
Tuttavia penso che il metodo e l'ordine mentale abbiano un valore, didattico almeno, e così ogni anno si comincia da lì:
gruppo identificativo che è formato da una serie di dati facilmente recuperabili di fianco all'immagine che riproduce l'opera. Ma quello che c'è da sapere non è la didascalia a memoria bensì il ragionamento sulla stessa.
Il primo dato da sapere appare banale: l'artista, spesso definito con un nome che può essere il vero nome di battesimo o il suo cognome o il luogo di nascita o un soprannome vero e proprio; poi il titolo dell'opera (tralasciamo chi ha deciso di battezzare l'opera in quel modo e perchè), la data o epoca con tutte le approssimazioni o le specifiche del caso...
Il primo scalino arriva con la dimensione dell'opera: qui il nuovo studente che già nutriva dubbi, inizia ad avanzare preoccupazioni e domande che riguardano l'integrità mentale della prof . Tuttavia specifico subito che, più dei numeri, è importante capire come l'opera abbia dimensioni legate alla destinazione, inoltre è importante cercare di visualizzare, capire cosa significano quei numerini. Manca ancora di ricercare la tecnica, che non è lo stile, ma spesso l'influenza.
Per ultima arriva la collocazione, che significato ha questo dato? Perché si deve sapere dove si trova la Madonna della seggiola? Cosa serve capire che le opere antiche non erano fatte per stare al museo? Perché ora spesso sono collocate al museo e dov'erano prima e chi ce le ha portate?
Il secondo gruppo di dati è quello che indaga sull'origine dell'opera: inizia con il motore dell'arte antica: il committente e poi via si ricerca anche la destinazione e il destinatario e se i destinatari dell'opera non sono i turisti e gli studiosi del XXI secolo ce ne faremo una ragione, per poi chiederci come è dunque approcciarsi con questa immagine.
Arrivati a questo punto si fa sempre l'esempio del David di Michelangelo che a destinazione non andò mai, ma quando la statua fu commissionataa a Michelangelo lo scultore tenne conto della destinazione comunicata dai prestigiosi commitenti. Fu così che per sempre le strane proporzioni del David ci parleranno di quel luogo irraggiungibile: uno dei contrafforti di Santa Maria del Fiore. Poi lo stravolgimento politico di Firenze e il successo di Michelangelo mandarono all'aria i piani dell'arredo esterno della Cattedrale e il messaggio della statua dell'eroe biblico. Il David da allora fu collocato nella piazza a guardia del palazzo dei Medici-Golia. La piazza della Signoria fu dunque la sua prima collocazione dove ancora oggi si trova la sua copia mentre l'originale scolpito da Michelangelo si trova, sempre a Firenze, alla Galleria dell'Accademia.
L'ultimo gruppo di nozioni si chiama gruppo espositivo che comprende il tema cioè la descrizione dell'opera, che -alla luce del contesto precedentemente messo in luce- assume senso e spessore; la descrizione dello stile che sarebbe come dire  il linguaggio usato dell'artista per comunicare la trama (tema). Lo stile è proprio la lingua che va compresa per non fraintendere l'opera. L'ultima voce della scheda conoscitiva dell'opera è il messaggio cioè cosa quell'opera comunicava che è come dire perchè è stata fatta.
Inutile dire che questo brogliaccio manca di molte voci come ad esempio manca della storia dell'opera, aspetto che spesso affascina i ragazzi più di ogni altro.


venerdì 28 settembre 2012

insegnare oggi ( post d'archivio 2010)

Cosa significa insegnare a scuola, oggi? 

Quale è il compito del docente, il suo dovere?
… com'era? … ah già, qualcuno l'ha scritto non so più dove: educare, insegnare, verificare.
E già!!! Mi pare chiaro che è compito complesso soprattutto per quell'educare, che presuppone una relazione di qualità perchè l'educazione abbisogna di quell'ammirazione che è dura da ottenere, così, dal nulla.
L'insegnare, poi..., è un affare misterioso perché non avviene per imposizione -si ha un bel da dire, da gridare: “impara, studia”, ma non sortisce l'effetto, no!- ci vuole tutta un'alchimia, che ha del prodigioso, il cui ingrediente fondamentale si chiama fiducia... poi ci vuole molto altro ma direi che la fiducia tra docente e il discente è il legante di tutti gli altri ingredienti.
Sull'ultimo elemento nascono i maggiori equivoci: verificare spesso è stato confuso -e, ahimè, lo è ancora- con un altro verbo: giudicare. Verificare necessiterebbe di una specifica: verificare l'apprendimento di quello che si è insegnato e così si chiarirebbe il tutto.
Il professore mantiene tuttavia un certo potere, anche se è ora mi sembra minore di quello che aveva in tempo, quando pareva essere uno dei pochi detentori del sapere.
La tradizionale figura del Professore, essere assoluto, chiude la porta e non deve rendere conto a nessuno (di come si guadagna i -seppur pochi- soldi pubblici); il Professore tiene chiuse in sé le chiavi del sapere e della didattica, della valutazione (che diventa affare personale e non si sa perché visto che l'insegnamento presuppone la relazione). Il Professore-Dio, inarrivabile, indiscutibile, inaccessibile, si china per darti compiti e valutazioni, poi il nulla...
Diciamoci la verità: l'abbiamo già superato questo concetto?
A sentire mia sorella e mia nipote, direi che certe cariatidi ancora esistono e stanno ben attente a non perdere la loro immagine di "indiscutibile" trascendenza.
Però anch'essi hanno logorato la invidiabile autorevolezza che è divenuta esecrabile autorità, sono divenuti odiosi e tediosi. Si inseriscono inoltre sul pericoloso terreno dell'instillare antipatia, pazienza per la materia, ma anche verso lui stesso medesimo... il Professore...
Ahia... questo dovrebbe suscitare, un allarme, magari solo un sottile, un lieve scricchiolio nello stolido Ego del Professore che, se rimane indiscutibile nell'esercizio del Sapere del passato e se vogliamo anche nell'inoppugnabile discernimento del presente, non mi pare possa dirsi ferrato nella previsione del futuro...
Infatti egli un domani non può escludere di avere bisogno di quella pratica che solo quell'impiegato -il cui cognome gli suona familiare- può fare; di dover contare della perizia di quel certo artigiano così consigliato che si mostra con un viso già conosciuto; di non poter fare a meno di quel bravo e onesto dottore che ha quel tic, come quel somaro di quell'alunno che aveva tentato di bocciare più volte...
Davvero è impossibile prevedere cosa diventeranno, o anche solo faranno, questi ragazzi che oggi ci vengono affidati e ma è chiaro che domani saranno loro a gestire i vari settori della società e nell'affrontare la vita impiegheranno tutte le esperienze fatte nel periodo della loro crescita.
Ci saremo anche noi insegnati in questo bagaglio di esperienze?
Sono convinta che non ricorderanno le nozioni io almeno, che ero la solita ragazza intelligente che non si applica, ne ricordo pochissime; ma ricorderanno gli atteggiamenti e le relazioni e forse per qualcuno saranno modello o argomento di riflessione.
Questo pensiero da solo vale, se per caso non bastasse il fatto di condividere la stessa natura umana, per non accontentarsi di insegnare, ma per desiderare d'amare, coloro che ogni mattina hanno l'avventura di sedersi proprio di fronte a noi!

giovedì 27 settembre 2012

allora domani s'interroga (post d'archivio 2010)



Domani s'interroga...
eeeh sai che novità... ce l'ha detto dal primo giorno:" interrogo tutti, tutte le lezioni, su tutto".
Domani s'interroga davvero!
Domani ci s'interroga sul serio.
Domani si fa lezione agli Uffizi; e siccome son quasi 2 anni che fate arte, la lezione la fate voi e io v'ascolto.
E non si dovrà più lottare con le dimensioni e con la collocazione, ma attenti alla destinazione quella serve, serve parecchio...
E sarà un bel ripasso: inizieremo là, dove inizia la pittura italiana e arriveremo fino a dove siamo arrivati a lezione, Caravaggio, poi basta, il resto lo accarezzeremo con lo sguardo come si fa col libro nuovo che si guarda cosa c'è avanti, in fondo... per curiosità ma senza capirlo, perchè c'è tempo..
e domani si potrà dire quello che non vi ho mai permesso, potrete dire "mi piace" oppure, "non mi piace".
Ma lo so già che vi piacerà l'opera che avete studiato e che , domani finalmente, vedrete dal vero.
Domani faremo l'unica lezione di arte degna di tale nome (l'unica in tutto l'anno... temo) ed è un piacere lasciare a voi l'onore di dialogare con le opere.
A domani.
(l'immagine: Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Medusa, 1598, olio su tela montato su scudo di legno convesso, 60x55 cm, galleria degli Uffizi)

  (roba d'archivio: risale a 2 anni fa)

il peso del giudizio (post d'archivio 2010)

Dopo tre scrutini in fila
sono scombussolata.
Perdo i miei punti fissi,
mi dimentico che il mio lavoro è relazione
una relazione a trois io loro e l'arte
in cui la cosa importante è  loro.
Quando vedo tutti quei numeri
mi gira la testa perchè
io ho bisogno di occhi,
di bocche, di mani
Non mi soddisfa
rappresentare in un numero
un'esperienza umana che è fatta anche di sapere.

Perdo la bussola
e mi si piazza un sasso nella gola
quando con determinazione
si valuta la vita di un altro
come si pesasse frutta;
si determina il suo sapere
come riempire un'otre;
s'azzarda un giudizio
con la leggerezza di chi, scartata la merenda, getta la carta.


ironia

C'è una piccola bambina che m'è rimasta dentro.
Fa capolino spesso arrabbiata e dispettosa, capricciosa in cerca di approvazione, insicura o restia a fare la cosa più  vantaggiosa,  per principio.
Una monella che, nonostante abbia il terrore della solitudine, non si cura di seminare tutt'intorno deserto e distruzione.
La conosco poco perché è insopportabile al punto da risultarmi molesta la sua frequentazione.
Però a volte mi piace: quando si commuove, quando ricerca un abbraccio, quando è solidale con l'altro nell'attimo del fallimento, quando si mette a giocare con i capelli e i vestiti, quando riesce a spiazzare l'adulto.

Mi è stato detto, da poche settimane, che questa piccola bambina fa paura: perché ribalta il tavolo delle trattative, perché è diffidente, perché è umorale, perché quando le cose non si allineano col suo punto di vista non c'è modo di starle vicino.
Non mi sono piaciuta avei preferito non riconoscermi.
Tuttavia c'è una parte di me che sa, che vede, ma che inerme asseconda. In realtà mi sono accorta bene solo da poco di quanto questa monella dispettosa abbia disperatamente bisogno di essere rassicurata e riportata alla tranquillità, ha bisogno di essere capita e anche curata, ha bisogno di solidale amicizia di quella dei sedici anni, "che sei mia amica a prescindere" e che nell'età adulta non si incontra più.

Mi si dice che sono io, adulta e sicura, consapevole e colta, che vado avanti nella vita a forza di razionalità ma che sono anche capace di far emergere lo slancio emozionale ed affettivo della piccoletta, io che solare e aperta, io che la passione l'ho sposata e riprodotta... mi si dice che sia mio il compito di rassicurare questa birbante che è assetata di giustizia e di vendetta e che fa paura anche a me. Va tenuta a bada e sottomessa dolcemente con le buone e con il sorriso.

Mi si assicura della mia capacità di prendermi cura di questa monella umorale e dispettosa.
Mi si incoraggia a provarci da sola e di farla scendere dalla mia testa al mio cuore.
Mi si avverte che sarà faccenda impegnativa dagli esiti incerti, e lunga , lunga...lunga una vita
Mi si minaccia riguardo l'assenza di alternative.

 tutto questo per poche centinaia di euro

martedì 25 settembre 2012

similitudini

"Voi, per me, siete nebbia" questa me l'ero persa.
ho saputo di questa frase solo pochi giorni fa e continua a girarmi in testa.
"Voi, per me, siete nebbia".
 A me una frase così non mi sarebbe mai venuta in mente.
...
 ed ora la nebbia sono io.

Le donne che leggono di Silvestro Lega

Lega, Il sonno dell'innocenza, 1882, olio su tela, cm 96,5 x 59,5, collezione privata
Lega, Il sonno dell'innocenza, 1882,  




l sonno dell'innocenza è un ritratto che il pittore fa alla moglie del fratello, Adele, e al nipote Antonio. Il titolo dell'opera è particolarmente suggestivo in quanto fa riferimento al piccolo che dorme nella carrozzina. Il bimbo è fisicamente vicino alla madre che, però, immersa nella lettura di un romanzo, pare lontanissima dal pensare a lui. Probabilmente l'utilizzo della parola “innocenza”, invece di “innocente” riferibile solo al piccolo Antonio, allude al fatto che la lettura rende Adele consapevole, la affranca dalla innocenza di colei che resta chiusa nella occupazione domestica. Proprio in questo consiste la garbata trasgressione che si percepisce dopo aver osservato l'opera vicino alle altre esposte. Lega qui evidenza la fuga nella lettura quando il ruolo, il dovere, la responsabilità della donna era quello di «far la madre» ed occuparsi, o quantomeno, di mettere all'ombra la testa del piccolo addormentato.
C'è quindi, in un paesaggio primaverile, un messaggio, non sappiamo quanto consapevole, da parte del pittore. Ci pare di cogliere la volontà di cambiamento, di rivendicazione del diritto di fuga dai cliché prestabiliti, una volontà di riscatto e di essere protagoniste della formazione della propria mente, che passa anche per quella vicinanza dei corpi e lontananza dei pensieri.



 Lega, La lezione della nonna, 1880-81, olio su tela, cm 116 x 90, Peschiera del Garda, Municipio.
 
Ci sono storie semplici e piccole che in un tono sommesso e dolcissimo veicolano un messaggio nuovo  e antico al tempo stesso.
La lezione della nonna riprende e approfondisce il tema de Il sonno dell'innocenza. In questo caso la “trasgressione” dell'allontanamento dai ruoli tradizionali della donna è moltiplicata e assume un “aggravante”: la nonna non trasgredisce da sola ma educa a trasgredire.
             Lega, La lezione della nonna, 1880-81.

I 130 anni che ci separano dalla realizzazione del dipinto possono insinuare il sospetto che questa interpretazione sia esagerata.
Il dipinto è molto delicato e, come l'altro dipinto di Lega, unisce il tema delle persone assorte nella lettura alla raffigurazione dell'abbandono della consuetudine: la nonna ha lasciato il suo lavoro di cucito e la nipotina ha abbandonato a terra la bambola di pezza. Inoltre il testo che entrambe stanno leggendo, con il tipico atteggiamento di chi insegna con affetto, non ha l'aria di rimandare a letture sacre.
Il quadretto è intimo e armonico, cromaticamente basato sul rosso e sul grigio, ma il suo messaggio è tutt'altro che banale, soprattutto per quell'atteggiamento di “lettura insieme” che ricorda come trasmettere la passione per la lettura sia un regalo affettuoso e non un dovere o una noiosa incombenza.
E' davvero straordinario il ruolo che da sempre ha avuto la donna come educatrice dei piccoli. L'immagine che resta da questo dipinto è l'unione affettuosa tra l'educazione e la lettura che sposta e allarga la dimensione dal personale al molteplice, dal contingente al diversificato, dal semplice al complesso e articolato. La cultura e l'istruzione ci appaiono come momenti fondanti della riflessione sulle pari opportunità, proprio perchè è la strada privilegiata che apre porte e incontri altrimenti difficili o impossibili. L'incontro è sempre occasione di scambio e di confronto, un'occasione che può valere un progresso personale e sociale.



lunedì 24 settembre 2012

le mie classi

Quest'anno ho tre scuole.
Due sono a Sassuolo e, per me, sono proprio nuove cioè non ci ho mai nè insegnato, nè fatto esami di stato.
A Sassuolo, nella Delizia Estense, ora sono esposti diversi dipinti della galleria Estense, chiusa fino a data da definirsi per i danni del terremoto del maggio scorso.
Lo scorso anno con una classe del Venturi al Palazzo dei Musei in generale tra Archivio storico, Museo lapidario Estense e soprattutto nella Galleria , proprio tra questi quadri ci abbiamo passato le mattine. e anche diversi pomeriggi
Così, ora che insegno a Sassuolo, ho l'illusione che i dipinti, che si erano affezionati a me e ai ragazzi, mi stiano seguendo, desiderosi di pavoneggiarsi, come sono soliti fare gli ambiziosi capolavori.
Poi ho avuto anche un piccolo incarico al Barozzi di Modena dove insegno alle classi quinta ERICA.
Così sono su tre scuole in due comuni -Modena Sassuolo- e ho 5 classi terminali: di cui quattro sono 5 ERICA e una è la III del liceo classico; ho tre classi 4 di cui due sono 4 ERICA e una è la II liceo classico e ho solo una classe terza che, in realtà è una I liceo.
Ora io mi chiedo, solo a dire e a memorizzare una roba così è chiaro che ho dei super poteri e che lo faccio a fare il test di logica del concorsone?

venerdì 21 settembre 2012

Colpo di fulmine

Ci sono  libri che, come li vedi, cadi vittima del colpo di fulmine e li comperi con quella urgente necessità che la passione spinge a far proprio, non dico l'oggetto"libro", ma quell'idea che s'intravvede dietro al titolo.
In queste relazioni così improvvise e fulminanti accade che ci si ritrova poi a guardare negli occhi un estraneo che si era rinvestito delle proprie idee, bisogni o sogni e -ugualmente il libro e l'amante- si rivelano sovente solo  uno specchio nel quale si riflette uno sfrontato narciso.
Il mio amatissimo Schama rimane il mio autore della vita: quello che con perizia e pazienza è riuscito a smussare e a plasmare i miei entusiasmi e le mie rigidità, quello che mi critica con parsimonia e mi affianca nei miei viaggi mentali e reali.
Ho mandato invece spesso a gambe all'aria moltissimi altri autori: impietosamente li analizzo, annoto i difetti e mi stupisco dei pregi. Arrivano ad affiancare il mio studio faticosamente come se prima di merìtare la mia fiducia sia necessario risalire la china della credibilità.
Il punto è che Simon (Schama), come colui che si ama, passa per categorie altre, solo sue, così è scusato sempre e comunque, a prescindere, mentre il mio metro di giudizio circonda impietosamente ogni dimensione proposta da tutti gli altri.

E' stato sicuramente un colpo di fulmine quello per Martina Corgnati "I quadri che ci guardano. Opere in dialogo", editrice Compositori.
Il titolo mi ha stregata, un bellissimo titolo, "perchè non l'ho pensato io: basta occuparsi un po' di quella noia della Gioconda per immergersi nel mondo dello sguardo, o dell'Annunciata di Antonello da Messina... ma che bello, che idea, che titolo".
Solo che poi, quel titolo, mi ha portato lontano, talmente tanto lontano che avevo timore ad iniziare a leggere e a conoscere l'idea della Corgnati. Il libro era lì, a portata di mano, con la copertina giocata sui rossi e il bianco, ma lo guardavo a distanza, aspettavo di essere pronta, il momento giusto per aprirlo come quando si aspetta per dichiarare l'amore.
E spesso succede che, mentre si aspetta l'attimo magico in cui buttare il cuore, nasca e cresca la consapevolezza che quel gesto possa anche non essere capito: quel cuore possa non essere preso, cioè si inizia a dubitare del fatto che ne valga la pena.Allora il colpo di fulmine è finito e ci si trova davanti solo al proprio io che non riconosce poi tanto quell'altro che, in fondo, non è nemmeno capace di reggerlo, lo specchio.
Quindi ora, passata la passione e l'attimo magico, ho già un percorso nella testa che riconoscevo come mio, da amanti a rivali: è difficile potercela fare!
Invece no, la Corgnati se l'è cavata egregiamente!
E quindi iniziato il libro lo centellino: ne leggo poche pagine, cerco le immagini, mi faccio venire la voglia di continuare... lo medito, lo rimugino...
La parte dedicata all'Annunciata di Antonello da Messina mi pare incompleta, però è fatta bene. Certo che dare un motivo a quel vento che scompiglia le pagine e sciogliere il simbolismo del libro e della lettura... sarebbe stato il massimo, così come mostrare come l'assenza dell'interlocutore contrasti con la evidenziata materialità delle presenze...occhi che vedono e gesti che alludono...
Certo che... quando parla degli autoritratti di Rembrandt, no, non mi va proprio, ma è per via di Schama, sempre lui!

Il tema affrontato nel libro, la relazione tra il ritratto e l'osservatore, non è assolutamente secondario: è un aspetto importante che necessita indagare tutto il dipinto tentando di ricostrire la sua storia e la sua origine. E la Corgnati lo fa bene, soprattutto con la Ginevra Benci.
Dal punto di vista dell'autrice esce un ritratto caratterizzato dalle pupille ristrette e fisse negli occhi di chi la guarda: una novità che rimane unica nella pittura di Leonardo.
Il punto di vista dell'autrice è originale ma molto convincente e coinvolgente: conquista. Leonardo viene presentato per quello che è: uno studioso della natura, cioè uno scienziato diremo oggi, quindi se decide di dipingere una donna in piena luce è chiaro che farà le pupille di conseguenza!
Beh grande! sono quelle trattazioni che mi illuminano, mi si piantano in testa e mi spingono a pensare che quel dettaglio è uno dei nodi centrali della questione. Anche perchè nel testo è riportata la citazione degli appunti di Leonardo per la parte rapporto luce-pupille tratto dal codice Foster.
Il problema che l'autrice si pone poi è geniale: "Forse Ginevra ha quella faccia perchè non riesce ancora a vedere quel che le sta di fronte e sta sforzandosi di farlo: i suoi occhi un attimo prima erano pieni della riposante penombra delle frasche e si sono appena adattati alla posizione che l'artista le ha imposto per ritrarla, in piena luce."... grande!



giovedì 20 settembre 2012

Un peccato e due racconti al Prado


Rubens, Adamo ed Eva, 1628-1629, olio su tela, cm 235 x 184,5, Madrid, Museo del Prado.

Si tratta dell'episodio del peccato originale, tratto dal primo libro della Bibbia -la Genesi-, un tema molto conosciuto e molto rappresentato. Questo dipinto è una copia che Rubens fece dall'omonima opera di Tiziano.
Rubens, Adamo ed Eva, 1628-1629, olio su tela, cm 235 x 184,5
Si tratta dunque di una copia*... e il suo originale, quello appunto di Tiziano, è situato nello stesso museo, poche stanze più in là.
Le due opere rappresentano l'evento più drammatico della storia della salvezza, anzi è proprio questo l'inizio stesso del dramma: Adamo ed Eva stanno commettendo il peccato originale.
Entrambi i dipinti interpretano il tema del peccato, più che descriverlo.
Però la rappresentazione di Tiziano è più austera rispetto a quella di Rubens.
Ad una prima analisi potrebbe venire il sospetto che Tiziano colga l'idea del dramma di cui i due sono inconsapevoli autori ma Rubens pare che sottintenda che non hanno fatto nulla di male.
La differenza tra le opere non sta tanto in piccoli cambiamenti dovuti a questioni estetiche o stilistiche ma piuttosto al fatto che le due tele rispecchiano il cambiamento di mentalità religiosa e morale del loro tempo. Da una parte c'è la mentalità controriformista di Filippo II che riceve l'opera da Tiziano, il suo artista preferito, che è ben attento alle preferenze e sensibilità del suo committente; dall'altra la straordinaria leggerezza di Rubens che celebra la gioia di vivere, di amare e lo fa ogni volta che può, anche nel momento più drammatico della storia della salvezza.
Tiziano, Adamo ed Eva, 1550, olio su tela, cm 240x186
Il protagonista delle due tele è il serpente: pare che Tiziano abbia fatto un ragionamento che ci convince moltissimo. “Eva, in quanto donna, non si sarebbe mai fatta ingannare da un serpente; una donna che vede un serpente non si mette a fare due chiacchiere ma corre via. Quindi il serpente deve avere il corpo e il volto di un bimbo. Se c'è qualcuno che riesce a ingannare la donna quello è un bel bambino paffuto”. Questo ragionamento è uno dei motivi per cui questa iconografia ci piace.
Rubens ha capito e intensificato la questione: il bimbo-serpente si sporge e tende la mela ad Eva mentre le sorride.
Tiziano raffigura un rapporto psicologico diverso: il bimbo-serpente guarda serio Adamo mentre tende il frutto a Eva. Adamo è sbilanciato all'indietro e guarda molto diffidente il bimbo-serpe: qui il peccato lo fa tutto Eva, Adamo sta dubitando, è scettico, si tira indietro e con la mano cerca di allontanare Eva.
L'Adamo di Rubens non ha nemmeno visto cosa succede sopra alla sua testa: è totalmente preso da Eva, la guarda rapito e si sta sporgendo verso di lei. Dalla posizione che assume la sua mano destra -appoggiata semichiusa sulla roccia- sembra che si stia alzando per abbracciarla. Gli sguardi sono intensi e molto eloquenti.
Tiziano sta raccontando il peccato originale, infatti i due sono già coperti dalle foglie, c'è già -allusivamente -la scoperta della vergogna dell'essere nudi, conseguenza del peccato.
Se consideriamo, invece, la tela di Rubens abbiamo il dubbio su quale sia il vero evento cui vuole alludere, egli non si pone il problema del peccato e delle sue conseguenze. I progenitori, Adamo ed Eva, ci parlano di una situazione umana, passionale, riconoscibile e condivisibile. E raccontano questa storia d'amore carnale, che è antica quanto il mondo, con una leggerezza e delicatezza che non lascia nulla all'immaginazione ma neppure si ferma a descrivere la banalità dell'accadimento. Il pappagallo -che non è presente nel dipinto di Tiziano- dona un clima di esotica spensieratezza e si rapporta armonicamente con i fiori rossi che sono dietro ad Eva, creando quell'equilibrio cromatico che Tiziano non ha alcun motivo di ricercare, infatti il peccato cancella l'equilibrio e la bellezza del paradiso. Eva è la protagonista dell’opera di Rubens, su di lei insistono gli sguardi.

*Le copie nel passato avevano una valenza molto diversa rispetto ad oggi. Innanzitutto la copia è “il pane quotidiano” dell’allievo pittore, sia che la sua formazione si svolga in bottega -dove copia le opere del suo Maestro-, sia che compia la sua formazione in Accademia dove imparerà riproducendo i capolavori.
Inoltre, anche quando l'artista era affermato, capitava spesso che il committente chiedesse una copia da un suo o da un dipinto di altri. Quindi quando le iconografie più amate ed efficaci avevano successo se ne richiedevano altri esemplari. Spesso era lo stesso committente a volere più copie per le sue diverse residenza o per farne dono.
Naturalmente copia non è sinonimo di riproduzione, spesso è uno studio critico, a volte risente di aggiornamenti tematici. Oggi, per lo studioso della storia dell'arte, le copie di una medesima iconografia fatta da diversi autori è un modo particolarmente efficaci per evidenziare le diversità stilistiche delle diverse mani, le sensibilità che mutano o le modifiche dovute al cambio di destinazione.
In questo caso la questione è complessa perchè esistono due versioni di questo medesimo oggetto: una appartiene alla prima produzione di Rubens -1599-1600- ed è conservata ad Anversa alla Museum Rubenshuis (in italiano Casa di Rubens) e l'altra all'ultimo periodo quando Rubens compie una missione diplomatica alla corte di Filippo IV e in questa occasione copiò la tela di Tiziano che ho proposto qui sopra.

Artemisia di Rembrandt: dal romanzo al museo

Rembrandt, Artemisia, 1634, olio su tela, cm 142 x 153, Madrid, Museo del Prado.

Artemisia è un'opera difficile: osservandola si sperimenta l'irraggiungibile lontananza storica e geografica, ma anche l'inaccessibile volontà della mente che l'ha concepita.

In questo dipinto sono riassunte tante iconografie, tanti punti di vista che nella storia dell'arte si sono avvicendati nella rappresentazione della donna: la donna del mito, attraverso la storia di Artemisia, la donna occidentale, in quanto è ritratta Saskia la moglie di Rembrandt, la donna che legge infatti un grosso volume è raffigurato al suo fianco; naturalmente sia Saskia, che ha prestato il volto ad Artemisia, sia la mitica regina della Caria, celebrano i loro mariti.
Artemisia è frontale, in piedi, solenne, guarda davanti a sè. E' abbigliata con ricche vesti occidentali che non l'identificano con la sua terra, Caria, regione dell'odierna Turchia; con lei stanno due dame e accanto a lei è posto un grande libro sul quale posa la mano come se stesse giurando. Artemisia moglie di Mausolo, alla morte del marito, divenne regina e mausoleo del suo perduto amore.

Una lettura per andare oltre.
L'incontro con Artemisia, prima ancora di averla vista al museo del Prado, è avvenuto attraverso un brano del romanzo Un cuore così bianco di Javier Marìas (nell'edizione Einaudi pp.121-127 lo puoi leggere in coda al post) che ci propone una lettura emozionale di questo dipinto. L’interessante del racconto consente di pensare, senza suscitare scandalo, che un quadro possa essere contemporaneamente capolavoro e brutto, un privilegio molto esclusivo.
Senza scomodare il concetto di brutto, che -come quello di bello- è variabile e non codificabile, direi che leggere un racconto che sollecita la riflessione sulla irritazione e sulla frustrazione che si può provare davanti a questa opera, è molto particolare. Sgombra il campo e rende liberi di apprezzare o meno quello che tutti ammirano.
Marìas narra come Mateu, un custode del Prado, stufo di guardare il volto grassoccio di Artemisia di Rembrandt abbia concepito l’idea di bruciare il dipinto e con un accendino si apprestava a dargli fuoco.
Nel consueto giro ispettivo che Ranz compiva prima della chiusura del museo, si avvide delle intenzioni di Mateu e si apprestò a fermarlo. Comprendendo la frustrante esperienza del custode che era costretto ad osservare per molte ore al giorno quella Artemisia non bella ma protagonista di un capolavoro inestimabile; rendendosi conto di quanto la fissità del dipinto -che non riusciva a mostrare l’evoluzione della scena né il volto della servetta raffigurata di spalle- potesse inquietare Mateu, egli finse di voler ridurre in mille pezzi la tela servendosi di un estintore. Come colto da un folgorante senso del dovere, Mateu ha impedito a Ranz di compiere l’insano gesto.
Ecco, dunque, che, guardando l’Artemisia di Rembrandt con gli occhi di Marìas diventa legittimo che un capolavoro possa apparire brutto e irritante.
Perché, dunque, è irritante questo dipinto? Cosa disturba di esso? E cosa voleva dire Rembrandt?
La risposta, non unica né univoca, può forse provenire da una più attenta lettura delle immagini, dal momento che guardare non basta.
Forse analizzare qualche aspetto della storia di Rembrandt può aiutare.

La bellezza olandese
Rembrandt non è mai uscito dall'Olanda e non si è mai confrontato con le opere italiane. È quindi importante sapere che questo pittore è totalmente disinteressato al modello di bellezza "ideale", al concetto dell'arte come recupero del classico, alla veste mitologica che i pittori italiani propongono. Non è preoccupato nemmeno dei concetti “filosofici” che in Italia sono al centro del dibattito sulla pittura, come ad esempio, se sia più importante il disegno o il colore.
Rembrandt, essendo fuori da tutto ciò, è libero di esprimersi. Inoltre, egli fece una carriera opposta a quella degli altri pittori, divenne subito famoso e ricco poi, progressivamente fu dimenticato e quasi abbandonato, rimanendo libero anche dal vincolo del committente.
Tutto questo per dire che Rembrandt è capace e propone una pittura "libera" e quindi noi lo percepiamo con un'aspetto anticoformistico piuttosto innovativo nel suo contesto storico.
Egli è diverso, come lo sono i pittori moderni. Essere libero significa non dipingere per la committenza ma per un mercante d’arte, significa non dover usare la sua tecnica per compiacere un committente che voleva veicolare contenuti suoi attraverso le immagini eseguite dall’artista Rembrandt.
È questo che fa la differenza.
Raffigurando quella che Marìas identifica come la “donna grassa”, Rembrandt non ha inteso fare una donna brutta. Sappiamo che la modella è la giovane moglie Saskia, quindi la donna esprime un'immagine che Rembrandt ritiene bella, amata, dolce. L'intenzione è di esprimere l'amore per la giovane moglie che è vestita riccamente, è abbigliata con uno sfarzo e una eleganza che suggerisce un ambito regale, anche grazie alle due donne che l’accompagnano, al grande libro che non è un oggetto comune.
Ha una veste dorata con ricami, alamari e una mantellina di pelliccia, ha gioielli d'oro e pietre preziose e perle ovunque: nei capelli, al collo, sulle braccia, alle orecchie.
La figura di Saskia qui impersona una regina fedele e ricca ma non sappiamo esattamente se faccia riferimento ad Artemisia o a Sofonisba.
La damigella, che le sta di fronte, è nell’atto di porgerle una coppa, fatta con una conchiglia di nautilus; posta di tre quarti, intravediamo appena la guancia della fanciulla, mentre di fronte a lei, emerge dal buio una misteriosa presenza che l’osservatore non vede distintamente.
Queste due figure, secondarie rispetto ad Artemisia, sono “una firma” di Rembrandt e sono legate alla sua continua riflessione sul concetto di percezione della raffigurazione: la vicinanza di una donna di spalle, che non possiamo vedere, e il mistero della lontananza, di qualcuno che possiamo solo intuire, poi c'è Artemisia... o Sofonisba.

Una moglie e due regine
Pensare che Rembrandt ha lavorato tanto ad un'opera e si è dimenticato di lasciare una traccia del significato non convince.
Per dipingere ci vuole tempo, non è paragonabile all'atto quasi casuale che compiamo oggi quando scattiamo una foto: quest'ultimo può essere compiuto senza piena consapevolezza o lunga riflessione, la pittura è un creare più lento del pensiero per cui evidentemente Rembrandt ha scelto e considerato l'ambiguità del soggetto.

A partire dal 1634, anno del matrimonio con Saskia, Rembrandt la ritrae in costume diverse volte ma in fondo il messaggio sotteso a queste raffigurazioni era sempre quello: la rappresentazione dell'amore che lo legava alla moglie. Quindi Saskia vestita da Flora celebra la fecondità della coppia, Saskia prostituta (il dipinto allude alla parabola del figliol prodigo, 1635) con Rembrandt che brinda celebra la loro felicità, Saskia Artemisia o Sofonisba celebra la loro fedeltà. Ecco il senso della mano sul libro e di quello strano contenitore. Una sorta di lessico amoroso.

La misura della fedeltà
La conchiglia del nautilus, infatti, è associata al rapporto aureo che è un numero irrazionale e indicato con la lettera greca φ (fi). La spirale contiene all'infinito le proporzioni della sezione aurea. Secondo l'applicazione artistica di questo concetto esso è l'espressione dell'impossibilità umana di comprendere e misurare esattamente, quindi è la dimostrazione del limite dell'uomo e della presenza di Dio.
Il liquido che Artemisia-Sofonisba si appresta a bere è una bevanda mischiata con le ceneri del marito o col veleno, a richiamare l’attenzione sul limite della vita umana e sull'eternità dell'amore.
Romantico? Drammatico?
Affascinante.
Il fascino proviene dalla libertà stilistica della realizzazione: quando Rembrandt dipinge gioielli e vesti e capelli in quel modo, come se li partorisse dal buio e li facesse avanzare in una maniera plastica, usa il pennello come fosse uno scalpello e accumula materiale pittorico. La figura del fondo, come se non fosse ancora del tutto chiamata alla vita, è come un essere in nuce e ancora irriconoscibile, esattamente come quando si fatica a distinguere una figura lontana...
Essa, però, ha una funzione importante perchè dà una grande forza plastica ad Artemisia che, si direbbe oggi, “buca lo schermo”. La damigella più vicina a noi è proiettata nel nostro spazio ma è girata, non può rubare la scena alla protagonista, infatti ha un abito scuro, è solo una damigella e la sua funzione è quella di dare solennità alla regina e supporto all'amaro calice.
Proprio così, le due dame sono figure che misurano lo spazio: non le architetture, perché Rembrandt non è italiano e non conosce o, meglio, non è interessato a replicare, la lezione fiorentina.
Rembrandt utilizza spesso la posizione di tre quarti che pone i corpi immersi in uno spazio profondo e sperimentabile fisicamente, ma non è misurabile matematicamente.
Artemisia rappresenta per il pittore la realtà vicina, la felicità che vorrebbe eternare, e lo fa riproponendo il mito delle mogli fedeli che restano unite al loro uomo anche oltre la morte. La mano sul libro, il giuramento, riprende e enfatizza il concetto di fedeltà e di lealtà.

Conclusioni
Se pensiamo alla donna come la concepisce tecnicamente Rembrandt, come un'insieme di colore che prende corpo e abita lo spazio -più che misurarlo- e ne diventa essa stessa la misura, percepiamo quanto sia importante e moderno il suo linguaggio. Lo spazio è concepito nella misura in cui è abitato da una figura, come se fosse fatto per lei.
La lezione di Rembrandt va oltre l'esperienza pittorica in questo senso.
Anche l'uso del mito è allusivo e celebrativo, è veicolo di rappresentazione di concetti astratti che tendono ad eternare l'esperienza umana del quotidiano: come se la storia di una donna, divenuta mito e innalzata ad esempio, potesse ancora incarnarsi nel quotidiano e poi ritornare mito, attraverso la pittura.


 Brano tratto da "Un cuore così bianco" di Javier Marìas pp 120-127
... Ricordo il suo panico, quando lavorava al Prado, verso qualsiasi incidente o perdita, un deterioramento, un minimo guasto, così come nei confronti dei guardiani e dei sorveglianti del museo, i quali, diceva, avrebbero dovuto essere pagati profumatamente e trattati nel modo migliore, in quanto da loro dipendeva non soltanto la sicurezza e la cura, ma l’esistenza stessa delle opere d’arte. Las Meninas, diceva, esiste grazie alla benevolenza e al perdono quotidiano dei guardiani, che potrebbero distruggerlo in qualsiasi momento, se lo volessero, per questo bisogna farli sentire orgogliosi e allegri e in condizioni psichiche soddisfacenti. Lui, con mille pretesti (non era compito suo, non lo era di nessuno), cercava di informarsi sulla vita dei sorveglianti, se erano tranquilli o nervosi, oberati dai debiti o senza problemi economici, se le loro mogli o i loro mariti (il personale è misto) li trattavano bene o in modo brutale, se i loro figli erano motivo di gioia o piccoli psicopatici che li facevano diventare matti, sempre a interessarsi di loro e sorvegliarli per salvaguardare le opere d’arte, proteggerle dalle loro ire o accessi di risentimento. Mio padre era perfettamente consapevole che un uomo o una donna che passa i suoi giorni rinchiuso in una sala a guardare sempre le stesse pitture, ore e ore ogni mattina e a volte il pomeriggio, seduto su un seggiolino senza far altro che sorvegliare i visitatori e guardare le tele (è proibito anche fare cruciverba), potrebbe impazzire, propiziare catastrofi o sviluppare un odio mortale verso quei quadri. Per questo si occupava personalmente, durante il periodo trascorso al Prado, di cambiare ogni mese la collocazione dei guardiani, perché almeno potessero vedere le stesse tele solo per trenta giorni e far affievolire il loro odio, oppure per far loro cambiare l’oggetto del proprio odio prima che fosse troppo tardi. Di un’altra cosa era assolutamente cosciente: anche se il guardiano fosse stato punito o arrestato, se una mattina avesse deciso di distruggere Las Meninas, Las Meninas sarebbe stato distrutto esattamente come i Dürer di Brema – se li hanno distrutti i bombardamenti – in assenza di un sorvegliante che ne impedisse la distruzione essendo proprio il sorvegliante a distruggere, con tutto il tempo a disposizione per portare a termine il suo disastro e nessuno a poterlo fermare salvo se stesso. Sarebbe irreversibile, non ci sarebbe modo di recuperarlo.
Una volta usci dal suo ufficio quasi all’ora di chiusura, quando buona parte dei visitatori era già uscita, e vide un vecchio guardiano di nome Mateu (stava li da venticinque anni) che giocava con un accendino di quelli non ricaricabili e la cornice di un Rembrandt, concretamente il bordo inferiore sinistro dell’Artemisia, del 1634, l’unico Rembrandt certo del Museo del Prado, in cui la suddetta Artemisia, con i lineamenti molto simili a quelli di Saskia, moglie e modella del pittore, guarda di sbieco una coppa misteriosa che le viene offerta da una giovane serva inginocchiata e quasi di spalle. La scena è stata interpretata in due modi, come Artemisia, regina di Alicarnasso, nell’atto di bere la coppa con le ceneri di Mausolo, il marito morto per il quale aveva fatto erigere un sepolcro considerato una delle sette meraviglie del mondo antico (da lì mausoleo), o come Sofonisba, figlia del cartaginese Asdrubale, che per non cadere viva nelle mani di Scipione e i suoi uomini, che la reclamavano formalmente, chiese al nuovo sposo Massinissa una coppa di veleno come regalo di nozze, coppa che secondo la leggenda le venne offerta a causa della fedeltà in pericolo, anche se Sofonisba non era stata solo sua ma era stata in precedenza la sposa di un altro, Siface, capo dei masessilliani, a cui, di fatto, l’aveva appena portata via il secondo e saccheggiatore marito (il suddetto Massinissa) durante la confusa presa di Cirta, oggi Costantina, in Algeria. Dunque è difficile sapere davanti al quadro se in onore di Mausolo Artemisia stia per bere ceneri maritali o marital veleno Sofonisba per colpa di Massinissa; anche se, dall’espressione ambigua di entrambe, sembra piuttosto che l’una o l’altra abbiano ingerito, non senza esitazione, qualche intruglio adulterino. Sia come sia, sullo sfondo c’è una testa di vecchia molto phi concentrata sulla coppa che sulla serva o sulla stessa Artemisia (se fosse stata Sofonisba, probabilmente il veleno lo avrebbe messo la vecchia), non si vede molto bene, lo sfondo è una penombra troppo misteriosa o è troppo sporco, e la figura di Sofonisba è talmente luminosa e rilevante da rendere la vecchia ancor più sfumata.
Al Prado in quell’epoca non c’erano allarmi antincendio automatici, ma solo estintori. Mio padre con un certo sforzo ne sganciò uno che era a portata di mano, e anche se ignorava come usarlo, lo nascose malamente dietro la schiena (peso tremendo e colore sgargiante) e si avvicinò lentamente a Mateu, che aveva già bruciacchiato un angolo della cornice e stava passando la fiamma molto vicino alla tela, su e giù e da parte a parte, come se lo volesse illuminare tutto, la serva e la vecchia e Artemisia e la coppa, anche un tavolo rotondo su cui ci sono dei plichi scritti (forse la richiesta formale di Scipione) e su cui Sofonisba appoggia la mano sinistra piuttosto grassottella.
- Che sta facendo, Mateu? – gli disse calmo mio padre. – Vuol vedere meglio il quadro ?
Mateu non si voltò, conosceva la voce di Ranz alla perfezione e sapeva che ogni giorno, prima di uscire, faceva un giro a caso per qualche sala per controllare che tutto fosse a posto.
- No, – rispose in tono naturale e spassionato. – Sto pensando di bruciarlo.
Mio padre, raccontava, avrebbe potuto dargli un colpo sul braccio per far cadere a terra l’accendino e renderlo inoffensivo, e poi allontanarlo con un abile calcio. Ma aveva le mani dietro la schiena occupate dall’estintore e poi la sola possibilità di fallire e aumentare la rabbia del guardiano Mateu lo fece desistere dal rischiare. Pensò che forse sarebbe stato meglio intrattenerlo senza che accendesse la fiamma (ardente sostanze bituminose) finché all’accendino non ricaricabile terminasse la carica, ma poteva durare troppo tempo se per disgrazia l’accendino fosse stato nuovo. Pensò anche di gridare aiuto, qualcuno sarebbe accorso, il danno di Mateu limitato e il fuoco non si sarebbe propagato ad altri quadri, ma in questo caso addio all’unico Rembrandt del Prado di sicura mano di Rembrandt, addio a Sofonisba e addio ad Artemisia, e pure a Mausolo e a Massinissa e a Saskia e a Siface. Tornò a chiedergli:
- Ehi, Mateu, le piace così poco ?
-Sono stufo di quella cicciona, – rispose Mateu. Mateu non sopportava Sofonisba. – Non mi piace quella cicciona con le perle, – insistette (ed è vero che Artemisia è grassa e nel Rembrandt porta delle perle al collo e sulla fronte). – Sembra più carina la servetta che le serve la coppa, ma non riesco a vederle bene la faccia.
Mio padre non riuscì a evitare una risposta burlona, e cioè sorpresa e logica:
- Già, – disse, – è stato dipinto così, certo, la cicciona di fronte e la serva di spalle.
Mateu il piromane ogni tanto spegneva l’accendino per qualche secondo, ma non lo allontanava dalla tela, e alla fine di quei secondi lo riaccendeva e riscaldava il Rembrandt.
-È questo il brutto, – disse senza guardare Ranz, – che è stato dipinto così per sempre, e noi restiamo qui senza sapere cosa succede, vede, signor Ranz, non c’è modo di vedere la faccia della ragazza né della vecchia sullo sfondo, l’unica cosa che si vede è la cicciona con le due collane che non smette mai di prendere la coppa. Che la beva una buona volta, e almeno posso vedere la ragazza, se si gira.
Mateu, un uomo abituato alla pittura, un uomo di sessant’anni con venticinque passati al Prado, improvvisamente voleva che continuasse la scena di un Rembrandt che non capiva (nessuno lo capisce, tra Artemisia e Sofonisba c’è un mondo di distanza, la distanza tra bere un morto e bere la morte, tra aumentare la vita e morire, tra dilatarla e uccidersi). Era assurdo, ma Ranz non volle rinunciare a farlo ragionare:
- Ma cerchi di capire che questo non è possibile, Mateu, – gli disse, – sono tutte e tre dipinte, non vede ? Dipinte. Lei ha visto molti film, ma questo non è un film. Deve capire che non c’è modo di vederle diversamente, questo è un quadro. Un quadro.
-Per questo lo distruggo, – disse Mateu, di nuovo con l’accendino che accarezzava la tela.
-E poi, – aggiunse mio padre cercando di distrarlo e con una punta di pignoleria (mio padre è pedante), – quella sulla fronte non è una collana, ma un diadema, anche se di perle.
Ma Mateu non ci fece caso. Si soffiò via meccanicamente dei pelucchi dall’uniforme.
L’estintore sorretto a fatica stava spezzando i polsi di Ranz, che rinunciò a tenerlo nascosto e lo prese tra le braccia come un bambino, il suo colore carminio ben visibile. Il sorvegliante Mateu se ne accorse.
- Senta un po’, ma che ci fa con quello? – rimproverò mio padre. – Non sa che è proibito smontarli?
Mateu si era finalmente voltato sentendo il baccano provocato dall’incauto maneggio dell’estintore, che nel tragitto dalla schiena alle braccia era caduto in terra facendo saltare delle schegge dal pavimento, ma mio padre non osò avvalersi di quel momento di distrazione. Tuttavia dovette pensarci.
- Non si preoccupi, Mateu, – gli disse, – lo porto via perché bisogna aggiustarlo, non funziona -. E ne approfittò per lasciarlo in terra con gran sollievo. Prese il fazzoletto di seta color ciliegia che portava come ornamento nella tasca della giacca e si asciugò la fronte, un fazzoletto dal tatto e dal colore gradevoli, era da ornamento più che da usare, s’intonava con l’estintore.
- Le dico che lo distruggo, – ripeté Mateu, e minacciò Saskia con l’accendino.
- Quel quadro è d’enorme valore, Mateu. Vale miliardi, – gli disse Ranz cercando di vedere se il riferimento ai soldi poteva fargli recuperare la ragione.
Ma il guardiano continuava a giocare con l’accendino, accendendolo e spegnendolo e accendendolo, e decise di bruciacchiare ancora la cornice, una cornice molto bella, antica.
- Come se non bastasse, – rispose sprezzante. – Come se non bastasse quella merda di cicciona vale miliardi, che cazzo.
La bella cornice annerita. Mio padre pensò allora di ricordargli il carcere, ma lo scartò subito. Pensò un istante, e poi un altro, e alla fine cambiò tattica. Prese di colpo l’estintore da terra e gli disse:
- Lei ha ragione, Mateu, ha ragione. Ma non lo bruci perché potrebbe incendiare altri quadri. Lasci fare a me. Lo distruggo io con l’estintore, che è bello pesante. Sulla cicciona cadrà un bel peso e almeno se ne andrà affanculo.
E Ranz alzò l’estintore e lo sostenne in alto con le due mani come un sollevatore di pesi, disposto a tirarlo con violenza contro Sofonisba e contro Artemisia.
Fu allora che Mateu si fece serio.
-Senta un po’, – gli disse Mateu, – ma che vuol fare, così rovinerà il quadro.
- Lo faccio a pezzi, – disse Ranz.
Ci fu un momento di esitazione, mio padre con le braccia in alto che reggevano quell’estintore così rosso, Mateu con in mano l’accendino ancora acceso, la fiamma sospesa che vacillava. Guardò mio padre, guardò il quadro. Ranz non riusciva più a sopportare quel peso. Allora Mateu spense l’accendino, lo mise in tasca, allargò le braccia come un lottatore e disse minaccioso:
- Fermo li, fermo eh? Non mi costringa.
Mateu non fu licenziato perché mio padre non parlò di quell’episodio, e neppure il guardiano denunciò Ranz per aver cercato di polverizzare il Rembrandt con un estintore rotto. Nessuno notò le bruciature della cornice (forse qualche visitatore indiscreto a cui fu raccomandato di non fare domande e il sostituto corrotto), e in poco tempo fu cambiata con un’altra molto simile, ma non antica. Secondo Ranz, se Mateu era stato un sorvegliante solerte per venticinque anni, non c’era motivo perché non potesse più esserlo, dopo un passeggero attacco di furore. Non solo; attribuiva la sua azione e l’attentato alla mancanza di azione e attentati, e considerava come prova della sua fedeltà il fatto che al vedere il quadro che lui detestava minacciato da un altro individuo che in più era un superiore, aveva prevalso il senso di responsabilità sul suo vero desiderio di bruciare Artemisia. Fu immediatamente trasferito in un’altra sala, di primitivi, le cui forme sono meno rotonde ed è più difficile che irritino (e alcuni sono palinschematici, ossia raccontano storie complete nella stessa superficie o spazio). Per il resto, mio padre si limitò a interessarsi ancora di più alla sua vita, a fargli coraggio davanti alla vecchiaia in agguato e a non perderlo d’occhio durante le feste che due volte l’anno, il giorno di chiusura, si organizzavano per il personale del museo, prevalentemente nella sala grande dei Velazquez. Tutti gli impiegati con le rispettive famiglie, dal direttore (che faceva atto di presenza solo un minuto e aveva una stretta di mano moscia) fino alle donne delle pulizie (che erano quelle che facevano più baccano a si divertivano di più perché tanto dovevano fermarsi a pulire quel disastro), si riunivano a bere e a mangiare e a conversare e a ballare (conversare si dice per dire) in una specie di sagra semestrale concepita da mio padre secondo il modello o ragionamento carnevalesco per far divertire i sorveglianti e permettere loro di sfogarsi e di perdere la compostezza proprio li dove gli altri giorni dovevano mantenerla. E lui controllava che il cibo e le bevande che venivano serviti fossero tali le cui macchie non potessero rovinare né danneggiare i dipinti, e in questo modo era permesso inciampare ed esagerare: io da bambino ho visto la gassosa su Las Meninas e le meringhe su La resa di Breda.

mercoledì 19 settembre 2012

le azioni inutili della 4B

Lucia: Prof torna da noi?
Prof: No, Lucia ho tre scuole, la quarta non ci sta proprio.
Lucia: no prof... deve prendere una scuola e poi torna da noi.
Prof: Lucia lo sai, non sono io che decido. Comunque non preoccuparti, la prof di quest'anno è più brava di me: sono tanti anni che insegna "alla moda".
Lucia: Pensi prof che tutta la classe voleva fare un foglio con le firme per farla tornare.
Prof. Grazie, sono secoli che sento queste cose, nessuno l'ha mai fatto! soprattutto non sono mai tornata!
Lucia: Ehhh sì alla fine non l'abbiamo fatto perchè ci hanno detto che sarebbe stato inutile...
Prof: eh, sì sarebbe stato inutile... 
del resto sai che  "inutile" significa che non è utile a cambiare la realtà delle cose... 

però...
inutili sono, se ben ci pensi, tutte le cose belle della vita: inutile sono le poesie e le canzoni che ami.
Inutili le battute che ti fanno fare il primo sorriso dopo aver pianto. 

Inutile è ristorarsi all'ombra l'estate e fare la doccia a mezzogiorno quando il caldo torrido ti tornerà a far sudare.
Inutili sono tante opere d'arte, soprattutto quelle che più mi piacciono, inutili gli arazzi della dama e l'unicorno, Inutili quasi tutte le parole che vi ho detto durante l'anno, quando restavate dubbiose sulla serietà delle mie intenzioni... e subito dopo ridevamo insieme ( ma quanto abbiamo riso?!).
E' stato inutile il nostro convegno "GiotTi amo" e  soprattutto intili le zeppole che ha portato Veronica (che dio benedica sempre le mani di sua madre) 

...
e la sospensione, di per sè, è stata utile? forse c'erano altri modi.. 
Inutile è il mio rammarico per non poter continuare ad insegnarvi.
E' inutile anche l'abbraccio che ti accoglie dopo tanto tempo che non vedevi qualcuno o quando hai vissuto quella bruttissima faccenda... ma non ha risolto niente l'abbraccio.
Inutile il saluto di quando esci da casa e quando entri.
Inutile è l'apprensione di tua madre che inutilmente ti raccomanda di comportarti bene e di prestare attenzione. 
E' inutile mandare un sms alla tua amica triste per un brutto voto o perchè è stata lasciata dal suo ragazzo: non sarannno quelle poche parole a risolvere la situazione.
Inutile è quel pensierino insignificante che regali all'amica per il compleanno.
Inutile è guardarti allo specchio e sorridere o fare una smorfia.
Però io penso che tutte queste "inutili azioni" siano quella forza che ci fa svegliare al mattino e che dà senso alla vita perchè "inutili " sono tutti i gesti d'amore, però noi viviamo per quelli.
Grazie a tutte del pensiero 4B!

Liceo Formiggini Mercoledì 19 settembre: prime 5 ore di lezione.

Un'altra scuola: edifici, muri, scale, aule, distributori di cibo e bevande. Studenti, sindromi, insegnanti ed educatori, odori, calori e aria, registri; punti di vista e punti di riferimento, rumori e campane voci ed accenti. Quanto tempo ho per prepararmi a lasciarli?
Come un ubriaca continuavo a perdermi, la scuola girava e le aule si spostavano.

domenica 16 settembre 2012

Modena. Investita la A061 ...

 ... gli specialisti confermano la prognosi riservata.
Le condizioni sono gravissime.
Anche se si risveglierà dal coma, non sarà più possibile recuperare interamente la funzionalità della sventurata.
-che cosa è?
A061 è il nome della classe di concorso cioè una sigla che definisce un profilo didattico e disciplinare in prospettiva dell'insegnamento della storia del'arte.
-cosa definisce?
in generale la Storia dell'arte teorica cioè senza il disegno. E' la disciplina che, tradizionalmente in maniera cronologica, si occupa dell'insegmento della storia dell'arte soprattutto italiana ed europea.
I colleghi della A061 sono i docenti della A025, Disegno e storia dell'arte, della A024 disegno e storia del costume (esaurita a Modena), della A028, Arte e immagine (scuole medie )
-chi la può insegnare?
 i docenti della A061 sono spesso laureati in Lettere ( io sono una di queste), oppure provengono dal Dams ind. Arte. Possono essere laureati in Storia dell'arte (non è un corso di Laurea presente in regione) o in Conservazione dei Beni Culturali. Oppure possono essere Architetti o laueati all'Accademia che oltre alla loro tradizionale classe di concorso A025 hanno preso l'abilitazione a per la A061 (il contrario non è quasi mai consentito).
-dove si insegnava prima della riforma? (tra paentesi il numero degli istituti nella provincia)
all'istituto d'arte (Venturi) 1 istituto immenso
al liceo classico.(5 licei)
in alcuni istituti professionali: indirizo turistico (4 istituiti), indirizzo moda (3 istituti)
Ma soprattutto , in questi ultimi anni, le sperimentazioni che, non solo erano molto diffuse in città ein tutta ala provincia, ma anche molto frequentate e in particolare: negli ITC la sperimentazione ERICA(6 istituti ) e la sperimentazione Brocca al liceo classico (1), scientifico (1) e linguistico (1)

Cosa ha fatto la "riforma gelmini" riguardo l'insegnamento della Storia dell'arte A061?
ha tolto tutte le sperimentazioni quindi nel liceo classico e al linguistico la storia dell'arte è solo al triennio, allo scientifico c'è esclusivamente disegno e storia dell'arte  cioè la disciplina insegnata dai colleghi della A025
*non esiste più nessun tecnico con la storia dell'arte ad eccezione del nuovo indirizzo Turistico -che però è stato richiesto poco o concesso- (solo 2 in tutta la provincia e nessuno in città)
*non esiste più nessun professionale con la storia dell'arte: anche IPIA ind moda non ha più l'insegnamento di storia dell'arte e del costume.
ha aggiunto altri licei : musicale (1 con una sola sezione e basta), psicopedagogico(4), economico(5), linguistico (5) In questi liceo è previsto l'insegnamento di 2 ore nel triennio, mentre al musicale 2 ore su tutti i cinque anni.
in questi licei si insegna storia dell'arte non disegno e storia dell'arte ma la possono insegnare sia la A024, A025, la A061.
al triennio del classico la storia dell'arte è prevista con 2 + 2+2 invece del 1+1+2 di prima della riforma
( ma non sono nulla in confronto alle due ore per cinque anni della sperimentazione Brocca)

Il caso dell'artistico
L'ISA Venturi si è sdoppiato in liceo artistico e istituto professionale: al liceo artistico si è mantenuto l'insegnamento della storia dell'arte (A061) MENTRE PER IL PROFESSIONALE NON è PREVISTO L'INSEGNAMENTO DELLA STORIA DELL'ARTE. Nel caso specifico al professionale Venturi  il collegio ha deliberato, nell'ambito dell'autonomia scolastica, di usare 2 ore di altre discipline per l'insegnamento della storia dell'arte, ma solo per il triennio!

Cosa altro ha causato  la "riforma gelmini" ostacolando indirettamente l'insegnamento della storia dell'arte?
Ha tolto altre sperimentazioni che hanno indebolito moltissimo il liceo classico come il bilinguismo e il PNI.
La situazione di Modena evidenzia un robusto e deciso potenziamento del liceo scientifico, mentre il classico pare essere  alla soglia di un declino preoccupante, in particolare il Liceo classico San Carlo in questo a.s. ha perso 2 delle quattro sezioni che aveva ormai consolidate

La situazione attuale della A061
a.s.2011-12 inizio: una docente è stata immessa a ruolo (dal concorso del 1990 millenovecentonovanta) senza accorciare la coda dei precari.
2 docenti A025 vengono assegnati (assegnazione provvisoria) alla classe di concorso A061 in quando la loro classe di concorso risulta perdente posto.
a.s.2011-2012 fine: una collega va in pensione
a.s. 2012-13 inizio: 2 trasferimanti dal sostegno alla A061: uno sulla cattedra del collega pensionato e l'altro su un insieme di spezzoni definiti cattedra per un totale di 14 ore su due scuole(poi fortunosamente divenute 17 ore su tre scuole il 3 settembre).
3 docenti di ruolo sono perdenti posto e sono costretti ad un trasferimento (con 3 sedi) o ad un aumento di sedi (2 e anche 3 sedi).
L'insegnamento della storia dell'arte nei nuovi licei, nonostante la crisi della A061, è stato affidato alla A025 perchè spesso questi sono nati dal liceo scientifico dove appunto c'e la A025.
Tuttavia nel Liceo Sigonio, che nasce dallo psicopedagogico, con la presenza della A025, oltre alla cattedra della docente A025 è stata introdotta la A061 per il liceo musicale e per il liceo economico.
Nei licei linguistici la situazione è la seguente: a Vignola è appena stato introdotto e non c'è ancora il triennio; a Sassuolo Formiggini A025 (pur in presenza di un corso del classico), al Selmi di Modena A025, al Muratori di Modena A061, al Morandi di Finale Emilia A025.
La tutela degli insegnanti di ruolo
L'aspetto più incredibile e inquietante della faccenda è la mancanza della tutela degli insegnati di ruolo della classe di concorso A061. Solo all'istituto Deledda è stato, con delibera del collegio docenti, utilizzato un pacchetto di 3  di ore -di altre discipline- per tutelare il posto di un docente di ruolo. In tutti gli altri casi i docenti A061si sono visti aumentare le scuole. Il prossimo anno dove si troveranno le ore per questi docenti? Infatti stiamo parlando di docenti che insegnano all'IPIA ind. Moda o all'ITC ind ERICA o al Professionale del Turismo; se quest'anno insegnano solo alle classi vecchio ordinamento, quindi le quarte e le quinte, il prossimo anno  avranno solo le classi quinte... ma di quante scuole?  poi che faranno?
Perchè non si è tutelato il loro posto di lavoro come è, giustamente, stato tutelato il posto dei colleghi della A025?
La risposta è semplicissima: l'insegnate della A061, spesso è precario, se è di ruolo è spesso solo oppure con un collega. E cosa può fare un precario, un singolo docente di ruolo o una coppia, in un collegio docenti? Infatti l'autonomia scolastica permette l'insegnamento di una disciplina aggiuntiva in sostituzione di parte di altre per il 20%, quindi ai danni dei colleghi. I colleghi non sono "cattivi" ma semplicemente  tutela il suo lavoro in classe con i ragazzi e lo protegge dalla eccessiva frammentazione.
La mia esperienza è triste perchè ho avuto la chiara dimostrazione che l'insegnate precario A061 non può fare niente: è ignorato quando non è deriso! Ma se si va in gita... allora è amatissimo... Anche per fare progetti e svolgere programmi interdisciplinari è ricercatissimo, per gli scambi linguistici pare che sia il divo del momento... ma se perde il posto ha la solidarietà dei colleghi, al netto della fatica della protesta.

Proposta per sopravvivere alla "riforma gelmini"
La classe di concorso A025 ha come peculiarità il disegno e la storia dell'arte e a questa resta l'esclusiva dell'insegnamento al liceo scientifico e al tecnologico, così come la A061 è esclusiva in alcuni corsi di studio, come si è già detto.
Negli altri licei -dove sono previste le due classi di concorso- si potrebbe prevedere l'unione delle due graduatorie, scegliendo i docenti, a secondo la loro esperienza maturata e evidenziata dal punteggio. In questo modo si darebbe vantaggio all'anzianità e alla esperienza dal momento che il disegno non rientra nel piano di studio.